Nella sentenza della Corte di Cassazione n. 29337 del 23 ottobre 2023, viene chiarita la possibilità di licenziamento di un lavoratore a seguito del suo rifiuto di passare dal part time al tempo pieno. In particolare si analizza quanto previsto dal comma 1 dell’art. 8 del D.Lgs. 81/2015, secondo cui “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento” in rapporto a quanto affermato invece nella precedente sentenza 12244 2023 per cui la norma comunque non impedisce in assoluto il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Vediamo il caso concreto e le motivazioni della Corte.
Licenziamento dopo rifiuto di passaggio al tempo pieno: il caso
Si trattava di una lavoratrice part-time assunta a 20 ore settimanali con contratto secondo livello del Terziario dal 3 aprile 2017 in una SRL, e licenziata dopo aver rifiutato di passare a un contratto a tempo pieno e aver formato un nuovo assunto.
L'impugnativa del licenziamento era motivata del fatto che secondo la lavoratrice l'aumento del lavoro di contabilità per l'incremento dei clienti non giustificava l’eliminazione del suo posto e l’assunzione di un altro lavoratore a tempo pieno e che si trattava una ritorsione per aver rifiutato la proposta di passare a tempo pieno.
Il Tribunale di Milano ha respinto la sua richiesta, accettando le ragioni della società mentre la Corte d’appello di Milano ha annullato la decisione del Tribunale di primo grado, dichiarando il licenziamento nullo, ordinando di reintegrare la dipendente nel suo posto di lavoro e di pagare quindi un indennizzo basato sul suo ultimo stipendio dal momento del licenziamento fino alla sua effettiva reintegrazione, oltre ai contributi previdenziali e assistenziali.
La Corte d’appello ha sostenuto che la società aveva usato come pretesto una riorganizzazione aziendale concretizzata con l’assunzione a tempo pieno di un nuovo contabile ma ha ritenuto che il licenziamento fosse ritorsivo, in quanto direttamente collegato al rifiuto della dipendente di passare a tempo pieno.
Di conseguenza, ha applicato le protezioni previste in caso di nullità accertata del licenziamento.
Licenziamento ritorsivo e rifiuto di passaggio al tempo pieno: le motivazioni
La srl ha fatto ricorso contro la decisione della Corte d’appello alla Corte di Cassazione che ha accolto il ricorso e rinviato la decisione alla Corte in diversa composizione . Nella motivazione si precisa infatti che la Corte d’Appello non ha fatto corretto uso del principio secondo cui in tali casi il rifiuto del lavoratore di trasformazione del rapporto da part time a full time (come nel caso di specie), ma anche da full time a part time, comporta unicamente la rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell’onere della prova posto a carico del datore di lavoro, il quale è tenuto a dimostrare:
- le effettive esigenze economiche e organizzative tali da non permettere il mantenimento della prestazione del lavoratore a tempo pieno, o a tempo parziale, ma solo con l’orario differente richiesto;
- l’avvenuta proposta al dipendente o ai dipendenti di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale
- il rifiuto della proposta ;
- l’esistenza di un nesso causale tra le esigenze di riduzione (o aumento) dell’orario e il licenziamento.
Viene accolto in particolare il terzo motivo di ricorso della società che evidenziava che non erano stati presi in considerazione dalla Corte di appello i seguenti aspetti:
- la lavoratrice, a fronte della richiesta di incremento dell’orario di lavoro da venti a quaranta o trentasei ore settimanali, poi rifiutata, si era comunque dichiarata disponibile a svolgere al massimo e sporadicamente qualche ora di lavoro supplementare, per dedicarsi esclusivamente ai suoi clienti già assegnati;
- l’altra dipendente contabile della società era stata assunta, al momento dei fatti, con contratto di lavoro part time al 90%.
Le suddette circostanze, secondo la società, qualora fossero state opportunamente valutate, avrebbero sicuramente escluso per la Corte di merito la possibilità di ripartire tra i dipendenti in forza il carico di lavoro supplementare collegato all’assunzione di nuova clientela.
Quanto alla natura ritorsiva del licenziamento, i giudici di legittimità ricordano che il motivo illecito ex art. 1345 c.c. deve essere unico e determinante mentre, nel caso in esame, la prova della ritorsività era stata fatta coincidere con le medesime circostanze di prova del motivo oggettivo addotto.
In altre parole la Cassazione sottolinea che la mancata prova dell’esistenza del giustificato motivo di recesso da parte datoriale può costituire solo un indizio e non una prova del carattere ritorsivo del licenziamento.
A tal proposito i giudici di legittimità evidenziano, in ogni caso, che si tratta di una questione di fatto devoluta all’apprezzamento dei giudici di merito, con un accertamento in fatto non suscettibile di riesame innanzi alla Corte di legittimità.
La sentenza viene quindi cassata per la mancata analisi dei giudici di merito delle specifiche circostanze.