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SOCIETÀ LIQUIDATA: IL FISCO PUÒ RIFARSI SUI SOCI ANCHE IN ASSENZA DI PIANO DI RIPARTO

Società liquidata: il fisco può rifarsi sui soci anche in assenza di piano di riparto

La mancanza del piano di riparto non costituisce condizione sufficiente per superare la pretesa del fisco, che potrà rifarsi direttamente sui soci

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Nessuno può contestare al diritto tributario italiano di comprimere altri interessi in favore della certezza del diritto.

Se tale considerazione vale in generale per la maggior parte delle fattispecie tributarie, ci sono però situazioni in cui ciò è particolarmente evidente: una di queste è l’estinzione della società di capitali nel caso in cui successivamente nascano pretese da parte del fisco.

La norma che regola la situazione è l’articolo 2495 del Codice civile, il quale prevede che, dopo l’estinzione della società, i creditori non soddisfatti possano rifarsi sui soci nei limiti di quanto da questi riscosso in base al bilancio finale di liquidazione.

Con l’estinzione della società di capitali avviene un fenomeno di tipo successorio: i soci, in base al piano di riparto, percepiscono l’attivo residuante dalla liquidazione e, nel caso in cui ci siano creditori non soddisfatti, ne rispondono nei limiti di quanto riscosso. La delicatezza del punto deriva dal fatto che i soci di una società di capitali godono della limitazione della responsabilità, e una responsabilità successoria circoscritta a quanto riscosso si accompagna con coerenza a questo principio.

Questa impostazione vale in linea generale per tutti i creditori; ma, nello specifico, a tutela dell’interesse generale della riscossione, sono previste norme diversificate per il caso in cui il creditore sia il fisco. 

L’ormai famoso articolo 28, comma 4, del Decreto Legislativo 175/2014 prescrive che ai soli fini “degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi” l’estinzione della società “ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese”.

Tuttavia la recente ordinanza numero 10678 della Corte di Cassazione, pubblicata il 4 aprile 2022, ci ricorda che, a prescindere dal comma 4 dell’articolo 28 del Decreto Legislativo 175/2014 (i fatti in causa erano antecedenti alla promulgazione della norma, per cui l’efficacia dei concetti proposti prescindono da questa), secondo ormai consolidata giurisprudenza, la circostanza che i soci abbiano goduto, o meno, di un qualche riparto in sede di bilancio fiale di liquidazione non è dirimente ai fini dell’interesse ad agire del fisco creditore, in quanto “la possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono […] di escludere l’interesse dell’Agenzia delle Entrate a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti”.

La conseguenza di questa impostazione è che, potendo il fisco legittimare la sua pretesa anche in assenza di riparto, e realizzandosi comunque il fenomeno successorio, i soci potranno rispondere personalmente anche per importi superiori a quelli percepiti alla chiusura della liquidazione.

Il concetto condivisibile è che l’estinzione della società non può rappresentare una maniera per estinguere anche le pendenze con il fisco; purtroppo però i tratti fumosi e indeterminati, qualitativamente e quantitativamente, del perimetro della legittimità ad agire espongono il contribuente allo spiacevole cruccio dell’incertezza.

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