Per coloro che seguono le cronache di politica economica internazionale, la questione non apparirà affatto nuova; il primo accordo era stato raggiunto in occasione del G7 del mese scorso, un embrione di accordo sulla tassazione delle imprese di dimensione transnazionale, con l’obiettivo di mettere un freno alle molteplici problematiche disfunzionali che interessano i meccanismi di tassazione internazionale di queste imprese.
L’accordo raggiunto al G7, ripreso e confermato al G20 di Venezia di questi giorni, comincia ad assumere contorni più definiti, dato che si comincia a delinearne il perimetro di applicazione.
Il perno del compromesso è costituito da una global minum tax, una aliquota minima del 15% sugli utili prodotti dalle imprese multinazionali con fatturato globale superiore a 20 miliardi di euro e redditività superiore al 10%, applicata secondo un meccanismo di tassazione tradizionale, basato sulla territorialità, quindi in base alla presenza fisica di una stabile organizzazione in un dato paese.
Nei limiti degli utili che eccedono il suddetto margine di redditività, l’accordo prevede anche una ulteriore tassazione integrativa, basata questa, invece, sul luogo in cui i beni o i servizi venduti dall’impresa sono stati acquistati per il consumo finale, che di fatto sostituisce le ipotesi di web tax.
Appare fin troppo evidente come le caratteristiche di un accordo così delineato presentino dei lineamenti più politici che effettivamente economici, puntando più a un compromesso che a un effettivo risultato.
Il fatto stesso che ci sia un accordo tra i 20 più grandi paesi del pianeta rappresenta di certo un notevole passo in avanti, dopo decenni di concorrenza fiscale tra Stati, ma la strada per una effettiva realizzazione del progetto appare ancora molto lunga e impervia.
Il passo successivo sarà il raggiungimento di un accordo multilaterale tra tutti i membri dell’Ocse, ma il vero nodo, pur nella convergenza delle intenzioni, è costituito dall’applicazione di un accordo così strutturato che rischia di scontrarsi contro la realtà.
Il problema è che, per poter applicare effettivamente delle aliquote fisse, sistemi economici e fiscali incompatibili tra loro dovranno riuscire a trovare dei meccanismi di convergenza e di armonizzazione.
Il primo e principale scoglio è rappresentato dalla base imponibile; senza una base imponibile determinata con regole comuni, l’applicazione di una aliquota fissa appare sterile, potendosi facilmente e con successo effettuare politiche di incentivazione fiscale proprio erodendo la base imponibile.
Persino la determinazione di una base imponibile globale non presenta minori ostacoli, data le differenti definizioni che differenti sistemi economici danno alla medesima espressione.
A ciò, si aggiunge il problema delle imposte diverse da quelle sui redditi, a cui sono soggette le imprese, in relazione alle quali ogni Stato ha norme specifiche: la concorrenza fiscale tra stati si potrebbe realizzare anche attraverso le imposte indirette, dato che l’accordo non prevede un livello di pressione fiscale complessiva per le imprese coinvolte.
Tra l’altro, si noterà, infine, come una aliquota minima (ma non massima) del 15%, a ben vedere, non riduce di molto la forbice tra le aliquote già presenti a livello internazionale, considerando che molti paesi a bassa tassazione propongono aliquote di poco inferiori a questo valore, mentre i paesi a più elevata tassazione le prevedono di ben diversa entità.
In questa fase delle trattative l’accordo vuole restare politico e ideale, per raccogliere il consenso del più ampio numero di paesi possibile, ma alla fine la questione si scontrerà con la sua applicazione, e solo se si riusciranno a trovare soluzioni tecniche convergenti l’ipotesi potrà diventare realtà.