Nella sentenza n. 22634/2019, la Corte di Cassazione ha affermato che nei casi di prestazioni lavorative caratterizzate da elevato contributo professionale negli studi professionali, il giudice di merito deve valutare attentamente la natura delle mansioni svolte per definire il corretto inquadramento del lavoratore (autonomo o subordinato) ai fini della previsione dell’art. 2094 c.c.
Gli elementi da valutare in particolare sono infatti non solo :
- la presenza di direttive impartite dal titolare dello studio,
- l'osservanza o meno di un orario di lavoro
ma anche la natura delle attività svolte e la prevalenza dell'attività collegata allo studio e svolta nell’interesse del titolare dello studio e dei clienti.
Nel caso specifico il collaboratore era un laureato in giurisprudenza ma non abilitato alla professione . La Corte di appello aveva qualificato come subordinato il rapporto di lavoro, svolto presso uno studio legale , condannando l'avvocato titolare al pagamento delle differenze retributive .
L'avvocato nel ricorso in Cassazione , invece, affermava che la sentenza aveva valorizzato elementi sintomatici dell'autonomia del collaboratore nell'organizzazione del lavoro (peraltro dallo stesso riconosciuta), come :
- la facoltà di assentarsi dallo studio senza necessità di comunicazione al titolare e senza necessità di giustificazione ;
- rapporti diretti del medesimo con i clienti, i periti assicurativi, i liquidatori;
- mancanza di un orario di lavoro fisso e prestabilito;
- aveva una autonoma attività di arbitro
- percezione di una retribuzione parametrata al 12,50% dei ricavi netti dello studio, con rischio del risultato dell'attività economica gravante sul medesimo.
Nel caso di specie, dice la Cassazione, la Corte d'appello ha correttamente individuato gli indici normativi del lavoro subordinato e gli elementi indiziari, precisando che:
- la sede di lavoro era solo lo studio dell'avvocato
- il lavoratore aveva si rapporti diretti con clienti e fornitori ma erano esclusivamente clienti dello studio,
- svolgeva un'attività che non poteva esercitare in proprio perché privo del titolo di avvocato e l'avvocato sottoscriveva i documenti prodotti;
- riceveva dal titolare dello studio costanti direttive
- era assolutamente prevalente l'attività espletata nello studio legale rispetto a quella di arbitro,
- la sostanziale osservanza di un orario lavorativo imposto dalla stessa organizzazione dello studio,
- la natura delle mansioni svolte, di supporto a quelle dell'avvocato e nell'interesse dei clienti di quest'ultimo.
Su queste basi si conferma che la sentenza impugnata si è conformata ai principi di diritto sopra enunciati e si sottrae alle censure di violazione dell'art. 2094 c.c..
Non viene dato rilievo invece alla deduzione sulla partecipazione al rischio di impresa del lavoratore come destinatario di una retribuzione parametrata al 12,50% dei ricavi netti dello studio, trattandosi di elemento fattuale non accertato nella sentenza d'appello