Tra i dispositivi di protezione individuale vanno ricompresi anche gli indumenti da lavoro protettivi ed è obbligo del datore di lavoro curare la loro fornitura e manutenzione . Infatti nel concetto di DPI rientra qualsiasi accessorio od indumento che rappresenti una barriera protettiva a garanzia della sicurezza del lavoratore , non solo le attrezzature certificate come protettive degli specifici rischi del lavoro . Questo quanto affermato dalla Corte di cassazione con Ordinanza n. 17132 del 26 giugno 2019 .
Il caso portato alla attenzione degli ermellini riguardava le richieste di due operatori ecologici di risarcimento dei danni da inadempimento all'obbligo di lavaggio e manutenzione dei dispositivi di protezione individuale (D.P.I.) da parte dell'azienda .
La corte di appello, in riforma della decisione di primo grado, aveva richiamato la definizione di D.P.I. dettata dall'art. 40, comma 1, D.Lgs. n. 626 del 1994, ("qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo"), nonché le previsioni di cui al D.Lgs. n. 475 del 1992 e alla circolare del Ministero del Lavoro n. 34 del 29.4.99, ha precisato come dispositivi di protezione individuale fossero solo quelli aventi, secondo valutazioni tecnico scientifiche, la funzionalità tipica di protezione dai rischi per la salute e la sicurezza e che rispondessero ai requisiti normativamente dettati per la relativa realizzazione e commercializzazione; ha quindi escluso che gli indumenti da lavoro forniti dalla società datoriale potessero essere qualificati D.P.I. in quanto non destinati a fornire una adeguata protezione dai rischi di contatto con sostanze nocive o agenti patogeni; come peraltro desumibile dal c.c.n.l. 2.8.1995, che prevedeva solo la fornitura "in uso gratuito" degli "indumenti da lavoro" .
La valutazione della Suprema Corte invece è differente . Nella sentenza afferma infatti che : " l'interpretazione data dalla Corte di merito al citato art. 40, volta a far coincidere i D.P.I. con le attrezzature formalmente qualificate come tali non tiene adeguatamente conto del tenore letterale delle disposizioni richiamate e, soprattutto, della finalità delle stesse, di tutela della salute quale diritto fondamentale (art. 32 Cost.);
Ricorda anche che "lo stesso D.Lgs. 81 del 2008 (seppure non applicabile ratione temporis) contiene nell'allegato VIII un "Elenco" espressamente definito "indicativo e non esauriente delle attrezzature di protezione individuale", che costituisce la conferma del contenuto necessariamente "aperto" della categoria dei mezzi di
protezione .(... )da tali premesse discende come la previsione di fornire ai lavoratori i DPI (dispositivi di protezione individuale) conformi ai requisiti previsti dall'art. 42 e dal decreto di cui all'art. 45, comma 2"; e di assicurarne le condizioni d'igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie
( )", non possa essere letta in senso limitativo del contenuto e del novero dei D.P.I., come ha fatto la Corte d'appello, bensì quale previsione di un ulteriore
obbligo di carattere generale, posto a carico del datore di lavoro, di adeguatezza dei D.P.I. e di manutenzione dei medesimi."
La corte ricorda inoltre i molti precedenti in cui per lo specifico caso degli operatori ecologici addetti alla raccolta dei rifiuti, la Corte ha sempre affermato "l'obbligo datoriale di manutenzione e lavaggio degli indumenti da lavoro sul presupposto, fattuale e logico, della qualificazione degli indumenti medesimi come dispositivi di protezione individuale in particolare per prevenire la diffusione di infezioni in danno dei medesimi e dei loro familiari, a cui il rischio si estenderebbe in caso di lavaggio degli indumenti da lavoro in ambito domestico" ;
Afferma anche che nessun rilievo può attribuirsi alle pronunce di legittimità richiamate nella sentenza di appello impugnata (Cass. nn. 2625, 5176, 13745 del 2014), in quanto relative a lavoratori non addetti alla raccolta dei rifiuti, bensì a mansioni dì giardiniere;
Nel caso specifico invece agli atti era stato depositato il risultato di una ispezione della ASL locale che aveva individuato l'esistenza, nel settore della raccolta dei rifiuti svolta dalla società datrice di lavoro di un rischio infettivo, da contatto con sostanze tossiche, nocive ed agenti biologici.