La corte di cassazione nella sentenza 21679 del 5.9.2018 ha affermato che la detenzione da parte di un lavoratore di venticinque grammi di hashish, non a fini di spaccio, rilevato al di fuori del luogo di lavoro ma al momento del rientro dopo la pausa pranzo, ha certamente rilievo disciplinare, ma non tale da legittimare una risoluzione in tronco del rapporto. L'azienda automobilistica datrice di lavoro, aveva invece evidenziato che il lavoratore era stato colto sul fatto dai carabinieri e arrestato con grave discredito del nome commerciale della società in quanto l'eco della notizia si era diffuso anche in ambiente extra-lavorativo, a causa di un articolo sul quotidiano locale.
I due gradi di merito avevano confermato il licenziamento ma in appello è stata negata la reintegra e accordata al dipendente solamente l'indennità risarcitoria pari a 20 mensilità dell'ultima retribuzione in base all'articolo 18, comma 5, dello statuto dei lavoratori ,e compensate le spese di lite.
In particolare la Corte di Appello, aveva rilevato che :
b) era condivisibile la tesi della società secondo la quale se il lavoratore non fosse stato arrestato dai Carabinieri, sarebbe rientrato in azienda detenendo un discreto quantitativo di sostanza stupefacente (circa 25 grammi di hashish) il che avrebbe potuto causare "danno per la salute e l'igiene nello stabilimento" ;
c) tale quantitativo, tuttavia, non consentiva di presumere il fine di spaccio, mentre restava rilevante soltanto la detenzione di sostanza stupefacente per uso personale, nell'arco temporale dedicato alla pausa pranzo;
d) la peculiarità di tale comportamento, si distingueva dal mero fatto extra-lavorativo, presentando indubbiamente elementi di maggiore gravità;
e) correttamente dal primo giudice era stata esclusa la proporzionalità tra fatto addebitato e sanzione espulsiva adottata ed il vincolo fiduciario aveva subito un pregiudizio ma non tale da giustificare l'estinzione del rapporto di lavoro con la massima sanzione.
I giudici della Cassazione invece hanno accolto il primo motivo del ricorso del lavoratore ossia sulla violazione e falsa applicazione dell'art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300/1970 e, di conseguenza hanno sottolineato che il nuovo giudizio sulla gravità della condotta, che puo definire il tipo di tutela , anche sulla base delle previsioni del contratto collettivo nazionale , dovra tenere conto che :
- "la giusta causa di licenziamento, così come il giustificato motivo, costituiscono una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con disposizioni di limitato contenuto, che hanno bisogno di intepretazioni sulla base di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge;
- l'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, come modificato dall'art. 1 comma 42 della legge 28 giugno 2012 n. 92, riconosce al IV comma la tutela reintegratoria in caso di insussistenza del fatto contestato, nonché nei casi in cui il fatto sia sostanzialmente irrilevante sotto il profilo disciplinare o non imputabile al lavoratore; la non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra nel IV comma quando questa risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili che stabiliscano per esso una sanzione conservativa. Nelle altre ipotesi " di non ricorrenza" del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa invece il V comma dell'art. 18 prevede la tutela indennitaria cd. forte."