Secondo la Corte di Cassazione l’Amministrazione finanziaria può avvalersi del “caffettometro” per rideterminare gli incassi di un bar. Nel caso di specie analizzato nell’ ordinanza 21130/2018 a fronte di ricavi dichiarati pari a 119.139 euro, l’agenzia delle Entrate di Benevento aveva contestato ulteriori ricavi pari a 25.858 euro. L’amministrazione finanziaria in seguito ad un accertamento posto in essere nel 2005 aveva stimato gli ulteriori ricavi considerando che per una tazzina di caffè servono normalmente dai 6,5 ai 7 grammi di caffe e, senza considerare il caffè necessario per produrre cappuccini e il caffè confezionato rivenduto ai clienti, aveva correttamente calcolato in 8 g la polvere di caffè necessaria per una tazzina tenendo conto degli sfridi. In primo grado l’Agenzia era stata soccombente mentre dinnanzi alla commissione tributaria regionale il giudizio era stato completamente ribaltato. I giudici di secondo grado avevano anche tenuto conto del fatto che nella zona in cui era ubicato il bar vi fossero altri cinque esercizi commerciali e ridotto a 25 mila i maggiori ricavi accertati.
Davanti alla Corte di Cassazione la contribuente aveva eccepito che la CTR non ha tenuto conto del fatto che, in presenza di scritture contabili regolari, l'Ufficio non aveva dedotto presunzioni gravi, precise e concordanti, non potendo essere considerata tale la percentuale di ricarico applicata sui prodotti, sicché l'avviso di accertamento induttivo era illegittimo.
In merito a tale motivazione la Suprema corte ha già avuto modo di affermare che “sia in tema di accertamento delle imposte sui redditi che di accertamento ai fini IVA, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell'accertamento analitico-induttivo del reddito d'impresa, sempre che la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente e sostanzialmente inattendibile, in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell'antieconomicità del comportamento dei contribuente”. In questa ipotesi è quindi consentito, all'ufficio, dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, ai fini delle imposte dirette e dell'Iva (Cass. n. 6951/2017; Cass. n. 4312/2015; Cass. n. 6849/2009; Cass. n.13319/2011).
Secondo la corte gli elementi forniti dall’ufficio rappresentano presunzioni gravi, precise e concordanti in ragione dei quali il ricorso in Cassazione da parte della contribuente è stato rigettato, anche perché la stessa non aveva prodotto alcuna prova contraria circa la quantità di polvere di caffè reputata necessaria per preparare una tazzina.