La giurisprudenza di legittimità ha nuovamente affermato che nei casi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, che nel caso esaminato di specie hanno portato ad indebite detrazioni di imposta, spetta al contribuente e non al Fisco provare di aver rispettato la massima diligenza esigibile da un operatore accorto, risultando irrilevante la regolare contabilità, la regolarità dei pagamenti e la mancanza di benefici riconducibili alla rivendita di merci o servizi.
Come esplicitato nel “Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali” del Comando Generale della Guardia di Finanza (Circolare n. 1/2018), in un sistema di frode basato sull’emissione e sull’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, circoscritto al territorio nazionale, i documenti fiscali vengono rilasciati da imprese fittizie (dette anche “società di comodo” o “cartiere” o “missign trader”) create al solo fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte, celando la frode dietro lo schermo contabile di cessioni di beni o prestazioni di servizi effettuate da altre imprese, realmente operative, che vengono nascoste al Fisco.
Nel citato documento di prassi della Guardia di Finanza viene anche spiegato che in questo particolare meccanismo fraudolento il debito d’imposta resta in capo alla “cartiera”, che non presenta le dichiarazioni fiscali e non adempie alcun obbligo di versamento, mentre:
- il reale fornitore opera “in nero” non emettendo alcuna fattura,
- il cessionario del bene o committente del servizio annota nella propria contabilità i documenti fiscali afferenti le operazioni inesistenti emessi dalla “cartiera”, giustificando così gli acquisti effettuati ed ottenendo notevoli vantaggi sia dal punto di vista fiscale (potendo dedurre il costo e potendo detrarre l’IVA indicata nelle fatture) che commerciale (potendo acquistare dal reale fornitore e rivendere - spesso a soggetti estranei alla frode – a prezzi inferiori a quelli di mercato, con costi distorsivi della concorrenza).
Nel caso affrontato recentemente dalla Corte di Cassazione , riferito all’ordinanza n. 17161 del 28 giugno 2018, la situazione oggetto di ricorso risulta rientrare appieno nel sistema di frode (la c.d. frode “carosello”) trattato nel Manuale operativo della Guardia di Finanza.
Il caso vedeva contrapposte l’Agenzia delle Entrate e un concessionario d’auto, accusato di aver partecipato ad una frode “carosello” ed in tal senso aver contabilizzato fatture per operazioni soggettivamente inesistenti e conseguentemente aver detratto indebitamente l’IVA indicata nelle fatture.
Il contribuente, di contro, deduceva l’effettiva esistenza degli importatori e delle operazioni di compravendita delle autovetture dall’estero e, comunque, invocava la propria buona fede.
A tal proposito gli ermellini hanno ricordato come “l'esercizio "fraudolento" del diritto di detrazione è riscontrabile qualora, pur sussistendo tutti i presupposti sostanziali del diritto di detrazione ed al cospetto delle condizioni formali per il suo esercizio, si configuri l'evasione fiscale di colui che invochi il diritto di detrazione, oppure del suo fornitore diretto, oppure ancora di uno dei fornitori nella catena delle cessioni o delle prestazioni; infatti, il soggetto che emette fattura è, quanto meno formalmente, il fornitore effettivo, ma l'operazione si iscrive - per quanto riguarda quel trasferimento o per quanto concerne i passaggi precedenti - in una combinazione negoziale fraudolenta di cui l'acquirente era o partecipe o consapevole e che contempla l'avvalimento in vario modo da parte dei cessionari successivi del non versamento dell'IVA da parte di un cedente. In questi casi, l'onere probatorio dell'amministrazione finisce con l'appesantirsi, in quanto, di norma, non è possibile esigere che il cessionario, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni nella catena delle cessioni, verifichi che l'emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi ne disponesse e fosse in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell'IVA, o che disponga dei relativi documenti”.
Questo obbligo di verifica, tuttavia, si prospetta in capo al cessionario nel caso in cui si presentino degli elementi indiziari che gli consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione. Già l’immediato rapporto tra cedente e cessionario è ritenuto dalla Cassazione un utile elemento sintomatico capace di consentire al cessionario di rendersi conto o almeno di sospettare di irregolarità o di evasione.
Nel caso oggetto del ricorso i giudici evidenziano come gli elementi indiziari presenti nel caso oggetto di ricorso, ovvero gli elementi che potevano far capire che i cedenti delle autovetture acquistate dal concessionario di auto accusato di aver partecipato ad una frode “carosello” fossero mere “cartiere”, erano piuttosto numerosi: le società interposte non solo non avevano presentato la dichiarazione IVA, né versato l’imposta, né presentato la dichiarazione dei redditi per diversi anni, ma mancavano anche di una struttura operativa presso la sede, non avevano dipendenti e la documentazione contabile risultava introvabile.
Per una tale situazione la Suprema Corte, uniformandosi ad un percorso giurisprudenziale già tracciato, ha stabilito che “in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, pure nell'ambito di una frode carosello quali sono quelle in contestazione, in cui le operazioni sono sempre effettive, l'Amministrazione ha l'onere di provare solo l'oggettiva fittizietà del fornitore, ossia la sua non operatività, oltre che la consapevolezza del destinatario di essere parte di un'evasione, anche in via presuntiva in quanto avrebbe dovuto conoscere l'inesistenza del contraente, dovendo poi provare il contribuente di aver rispettato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo ragionevolezza e proporzionalità, essendo irrilevante la regolare contabilità, la regolarità dei pagamenti, e anche la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi”.