L’indicazione del credito d’imposta in dichiarazione rappresenta una manifestazione della volontà con cui il contribuente intende far valere un proprio diritto, pena la decadenza dello stesso.
In tal senso la Corte di Cassazione si è espressa con l’ordinanza n. 30172 del 2017. Il caso prende il via dalla pretesa mossa, giudizialmente, da una società farmaceutica, la quale ometteva di indicare nel quadro RU, della propria dichiarazione dei redditi, il credito d’imposta per la ricerca scientifica. La società, dopo aver presentato apposita dichiarazione integrativa di rettifica e successiva istanza di rimborso, si vedeva comunicare il diniego dell’Agenzia delle Entrate.
La società, procedeva quindi ad impugnare giudizialmente il diniego, innanzi alla commissione tributaria provinciale che però rigettava il ricorso. Stessa sorte, è in seguito spettata all’appello presentato dalla società. La questione si è protratta fino al terzo grado di giudizio.
Sul caso, la Corte di Cassazione, confermando gli indirizzi dei tributali di merito che l’hanno preceduta, ha rigettato la pretesa della società ricorrente e fatto chiarezza su alcune questioni. In merito al caso in esame, la Corte ha chiarito che:
- il decreto attuativo del credito d’imposta prevede che, lo stesso, dovesse essere riportato in uno specifico quadro della dichiarazione (in tal caso nel quadro RU), pena la decadenza;
- l’indicazione dell’ammontare del credito d’imposta in dichiarazione, rappresenterebbe un atto negoziale, espressione della dichiarazione di volontà con cui il contribuente intende far valere un proprio diritto. In quanto tale, l’atto negoziale non sarebbe di per sé modificabile, neanche a seguito di errore; diversamente da quanto accade per la mera dichiarazione di scienza, di per sé emendabile;
- fa eccezione, il caso in cui l’errore sia conosciuto o conoscibile dall’amministrazione finanziaria.
Si segnala che la tesi sostenuta dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 30172 /2017, non rappresenta una pronuncia isolata. I principi dettati dalla Suprema Corte appena descritti, confermano quanto già riproposto dalla medesima Corte nella sentenza 26 aprile 2017, n. 10239.