Con un comunicato stampa di ieri, le sigle sindacali dei professionisti ADC – AIDC – ANC – ANDOC – UNAGRACO – UNGDCEC – UNICO sono tornate a esprimersi sull'equo compenso. Di seguito il testo del comunicato:
"Equo compenso dei professionisti come garantire nella pratica l’effettivo incasso di compensi adeguati alla qualità delle prestazioni professionali
Le Sigle Sindacali richiamano l’attenzione sull’equo compenso, sulle diverse proposte che si confrontano in parlamento ed in particolare sulla sentenza n. 4614/2017 del Consiglio di Stato che ha dichiarato legittimo il comportamento del Comune di Catanzaro che ha indetto un bando di gara dove le prestazioni dei professionisti non prevedevano compenso.
Nell’attuale contesto economico dove i redditi medi dei professionisti negli ultimi 10 anni sono calati di quasi il 20%, in cui i giovani faticano a raggiungere la soglia annua dei 20.000 euro e le donne realizzano redditi del 60% rispetto a quelli degli uomini, occorrono norme che aiutino i professionisti ad ottenere un compenso, senza costringere il professionista a intraprendere un lungo e costoso iter giudiziario, nel quale abbiamo visto rischia di soccombere.
E’ ormai indifferibile una soluzione legislativa che sancisca il diritto ad un giusto compenso per chi svolge lavoro professionale ed intellettuale, riconoscendo la dignità del lavoro intellettuale, ripristinando un principio costituzionale, quello previsto dall’art. 36, che prevede il diritto per ogni lavoratore (anche quello autonomo) ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed è pericoloso condizionare la corresponsione dell’equo compenso al contenzioso giudiziario in sede civile che presenta vari problemi di ordine pratico:
- in primo luogo avviare un’azione giudiziaria nei confronti di un committente pregiudica inevitabilmente il proseguimento del rapporto professionale e l’assegnazione di nuovi incarichi. Di conseguenza, soprattutto nei rapporti con la P. A. (enti pubblici, tribunali, società partecipate, ecc.), il professionista verosimilmente non avrà mai la possibilità di far valere il proprio diritto all’equo compenso;
- in secondo luogo il costo dell’azione giudiziaria (contributo unificato, bolli, parcella dell’avvocato) è regressivo, ovvero diminuisce proporzionalmente all’aumentare del valore della causa. Se a questo si aggiunge che i tempi medi di durata del processo sono estremamente lunghi (soltanto il primo grado di giudizio può richiedere qualche anno), l’avvio di una causa può diventare conveniente soltanto se si tratta di valori consistenti. È evidente, allora, che così non si tutela la parte più “debole” delle professioni, soprattutto giovani e donne;
- infine, nel migliore dei casi, si rischia di inflazionare il contenzioso civile, rendendo i tempi del processo ancora più lunghi e generando nuovi costi per la pubblica amministrazione.
Le Associazioni ritengono giusto e corretto cercare dei parametri congrui per stabilire i corrispettivi inerenti le prestazioni dei professionisti e sarebbe auspicabile iniziare a rendere obbligatorio il riconoscimento di equo compenso partendo dai contratti con la Pubblica Amministrazione (e con enti e società partecipate), si potrebbe intervenire ex ante impedendo bandi, incarichi e affidamenti in deroga ai minimi stabiliti da parametri e tabelle di riferimento o addirittura gratuiti, consentendo al professionista di percepire il proprio equo compenso senza dover ricorrere al giudice. Tali parametri potrebbero inoltre diventare un benchmark di riferimento nei rapporti con i committenti privati.
Un compenso proporzionato all’attività professionale svolta è doveroso da riconoscere ai liberi professionisti ed è necessario che tale diritto non rimanga soltanto un principio enunciato sulla carta, lasciando vuote le tasche dei professionisti.