La Corte di Cassazione nella sentenza n. 23426 del 17 novembre 2016 afferma che , in caso di fallimento dell'azienda, il lavoratore, qualora il datore di lavoro non abbia pagato la retribuzione (o vi abbia provveduto in ritardo) ovvero non abbia effettuato i versamenti contributivi o, comunque, abbia operato ritenute non dovute, può chiedere direttamente - in via prudenziale o in caso di inerzia dell'Inps nell'esercizio dell'azione ex artt. 93 e 101 della legge fallimentare - l'ammissione al passivo, sia per quantospettante a titolo di retribuzione, sia anche della quota dei contributi previdenziali . Tale soluzione risponde infatti al principio dell'integrità della retribuzione, che, altrimenti, resterebbe frustata senza giustificazione. Gli Ermellini specificano che va assolutamente escluso che il curatore, ove l’INPS non si sia insinuato al passivo, possa trattenere dette somme mediante accantonamenti in prevenzione, neppure previsti dalla normativa vigente.
IL CASO
Un lavoratore aveva chiesto di essere ammesso al passivo del Fallimento dell’azienda in liquidazione, alle dipendenze della quale aveva prestato attività di lavoro subordinato, per l'importo di € 36.070,55, dovuto, in forza di sentenza del Tribunale di Frosinone, giudice del lavoro, a titolo di retribuzione non percepita in conseguenza della illegittima collocazione in Cassa integrazione guadagni straordinaria. Il giudice ha disatteso l'istanza del lavoratore e di conseguenza, il lavoratore ha impugnato lo stato passivo.
Il Tribunale di Frosinone ha ammesso il lavoratore per l'intero importo richiesto, in via privilegiata ex articoli 2751 bis numero 1, 2776 e 2777 c.c., con rivalutazione ed interessi, regolando conseguentemente le spese di lite. Nello specifico, il Tribunale ha stabilito come:
- il passaggio in giudicato della sentenza fosse stato comprovato in sede di opposizione allo stato passivo;
- il credito del lavoratore dovesse essere ammesso non solo per la retribuzione, ma anche per la quota dovuta a seguito del mancato versamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro, non potendo essere viceversa accolta l'eccezione di carenza di legittimazione attiva spiegata dal Fallimento, fondato sull'assunto che legittimato fosse l’Inps;
- in mancanza di prova di domande di insinuazione al passivo da parte di detto istituto andava salvaguardato unicamente il diritto del lavoratore all'integrità della retribuzione, potendo egli, in caso di omissione contributiva del datore di lavoro, pretendere che la retribuzione gli fosse riconosciuta in sede concorsuale al lordo delle ritenute previdenziali, così da non frustrare tale diritto;
- il credito andava ammesso in privilegio ai sensi dell'articolo 2751 bis c.c.
Contro il decreto del giudice, la società ha proposto ricorso in Cassazione, affidatosi a tre motivi:
- violazione e/o falsa applicazione degli articoli 52, 93, 99 legge fallimentare, nonché 2115, 2751 bis n. 1, 2153 e 2118 c.c., ossia l’azienda ritiene che legittimato al recupero dei contributi nell'ipotesi di insolvenza fosse direttamente l'Inps, anche per la quota contributiva a carico del lavoratore;
- violazione dell'articolo 40 della legge 30 aprile 1969, n. 153, ossia l’azienda ritiene che solo l'Inps è legittimato a richiedere l'ammissione al passivo in conseguenza dell'omissione contributiva da parte del datore di lavoro dichiarato fallito;
- violazione e falsa applicazione degli articoli 110, 113 e 117 legge fallimentare, ossia l’azienda evidenzia che il soggetto attivo dell'obbligazione contributiva gravante sul datore di lavoro è esclusivamente l'ente previdenziale e non già il lavoratore, sicché la soluzione adottata dal Tribunale, anche con riguardo al grado di privilegio riconosciuto, comportava una violazione del principio della par condicio.
I giudici della Cassazione ritengono fondato il ricorso, in quanto va premesso che l’obbligo contributivo, previsto dagli articoli 1 e 3 del regio decreto legge 14 aprile 1939, n. 636, nonché dall'articolo 2115 c.c., impone al datore di lavoro il pagamento, in favore dell'ente previdenziale, di un importo a titolo di contributi previdenziali a beneficio dei lavoratori suoi dipendenti. I contributi previdenziali sono dovuti in parte dal datore di lavoro, in parte dal lavoratore. Nondimeno, l'obbligo di versamento dei contributi previdenziali è posto a carico del datore di lavoro sia per i contributi dovuti dallo stesso datore che per quelli posti dalla legge a carico del lavoratore. Ed infatti l'articolo 2115 c.c. stabilisce al secondo comma che: «L'imprenditore è responsabile del versamento del contributo, anche per la parte che è a carico del prestatore di lavoro, salvo il diritto di rivalsa secondo le leggi speciali».
In collegamento con tale disposizione l'articolo 19 della legge 4 aprile 1952, n. 218, afferma ancora al primo comma che: «Il datore di lavoro è responsabile del pagamento dei contributi anche per la parte a carico del lavoratore; qualunque patto in contrario è nullo», ed al secondo comma che: «Il contributo a carico del lavoratore è trattenuto dal datore di lavoro sulla retribuzione corrisposta al lavoratore stesso alla scadenza del periodo di paga cui il contributo si riferisce».
Occorre pure rammentare il precetto — anch'esso essenziale per l'esame dei motivi di ricorso — posto dal primo comma dell'articolo 23 della citata legge 4 aprile 1952, n. 218, secondo cui, per quanto qui interessa: «Il datore di lavoro che non provvede al pagamento dei contributi entro il termine stabilito o vi provvede in misura inferiore alla dovuta è tenuto al pagamento dei contributi o delle parti di contributo non versate tanto per la quota a proprio carico quanto per quella a carico dei lavoratori».
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