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LA MORTE DEL PROFESSIONISTA: ADEMPIMENTI E STRATEGIE PER GLI EREDI

La morte del professionista: adempimenti e strategie per gli eredi

La morte del titolare dello studio professionale (lavoratore autonomo). Affrontare la successione mortis causa dello studio professionale valorizzando il patrimonio professionale

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La morte di un libero professionista pone gli eredi di fronte a una serie di adempimenti legati alla chiusura dell'attività e alla gestione del patrimonio dello studio. Questo articolo esamina le principali questioni fiscali e organizzative da affrontare, insieme alle strategie per preservare il valore economico dello studio. 

Scopriamo quindi come affrontare la cessazione dell'attività e la valorizzazione del patrimonio professionale.

L’approfondimento seguente è un estratto dal libro La successione nelle aziende – di Vannoni e Vernia.

1) Successione mortis causa studio professionale: adempimenti fiscali e cessazione dell'attività

L’attività di uno studio condotto da un libero professionista presenta alcune peculiarità rispetto all’impresa individuale, pur costituendo la forma di impresa ad esso più riconducibile.

Nel corso dei precedenti paragrafi (vedi La successione nelle aziende – di Vannoni e Vernia) ci siamo lungamente occupati delle questioni afferenti alla successione mortis causa dell’imprenditore, sia che svolgesse la propria attività in forma strettamente individuale, sia attraverso quella particolare forma collettiva costituita dall’impresa familiare.

La successione mortis causa nello studio professionale presenta però caratteristiche sue proprie, che rendono del tutto inapplicabile quanto stabilito dal codice civile in relazione alle imprese.

La ragione che, più di tutte, certifica questo stato di cose, si può desumere dal fatto che, a seguito del decesso del professionista, l’attività dello stesso cessa, per l’evidente ragione che si tratta di un’attività basata sulla prestazione intellettuale fornita del de cuius e modellata sul principio dell’intuitus personae, principio che finisce per rendere, nella teoria e forse ancor più nei fatti, il professionista un soggetto “insostituibile”.

Nondimeno lo studio può sovente rappresentare una realtà economica di tutto rispetto, dotata di fior di attrezzature, beni mobili e immobili, di dipendenti e di collaboratori e, circostanza da non sottovalutare, un avviamento, costituito dal fatturato generato dalle prestazioni effettuate in favore di quella clientela che, nel corso di un’intera carriera, il professionista è riuscito ad attrarre prima e conservare poi.

Il combinato disposto di questi due aspetti (l’intuitus personae nei confronti del professionista e il “valore” creato in anni di duro lavoro) fa sì che gli eredi del professionista si trovino posti di fronte ad una situazione che deve essere affrontata avendo riguardo di un duplice aspetto:

  • porre in essere tutti gli adempimenti legati e conseguenti all’interruzione dell’attività (chiusura partita Iva, incasso fatture emesse, pagamento fatture ricevute ecc.);
  • massimizzare i frutti derivanti da quanto realizzato in vita dal de cuius con il suo lavoro.

Poiché l’attività del professionista, a differenza di quella dell’imprenditore individuale, cessa forzatamente a seguito della morte dello stesso, i suoi eredi dovranno presentare all’Agenzia delle Entrate, entro trenta giorni dalla morte del de cuius, la dichiarazione di cessazione dell’attività, utilizzando il modello AA9, indicando i dati di quanto avvenuto all’interno dell’apposito quadro D.

Qualora il professionista risultasse iscritto ad una cassa di previdenza (come cassa Dottori commercialisti, Cassa Avvocati, Inarcassa, Enpam) dovrà essere cancellato dalla stessa, a seguito della chiusura della partita Iva.

Gli eredi dovranno poi curarsi di procedere alla fatturazione delle prestazioni erogate ma non ancora riscosse, seguendo pedissequamente i dettami previsti dalla disciplina in materia di Iva.

Qualora sussistano fatture già emesse dal professionista ma ancora da incassare o prestazioni ultimate ma ancora da fatturare, gli eredi non potranno procedere all’estinzione della partita Iva sino che non sia avvenuto l’incasso dell’ultima parcella.

Quanto appena affermato si rivela in palese contrasto con quanto prima asserito, ovverosia che tale chiusura debba avvenire tassativamente entro i trenta giorni dalla data del decesso.

In effetti, non si può negare che queste rappresentino due posizioni apparentemente inconciliabili.

La prima viene sostenuta dalla maggioranza della dottrina, mentre la seconda dalla Suprema Corte di Cassazione. Difficile trovare il giusto compromesso tra le due, non avendo, almeno fino alla data odierna, l’Agenzia delle Entrate sposato alcuna posizione ufficiale in merito.

Ciò che rimane incontrovertibile è che, ai fini della determinazione del reddito del professionista deceduto, è necessario distinguere tra 

  • compensi riscossi e spese sostenute prima della data del decesso ed 
  • i compensi riscossi dopo l’avvenuto decesso.

I primi devono essere dichiarati dagli eredi all’interno del quadro RE del Modello Unico Persone Fisiche intestato al de cuius, dal momento che saranno gli eredi a doversi occupare di presentare la dichiarazione dei redditi per conto del defunto.

Mentre i secondi andranno inseriti nella dichiarazione dei redditi riferita all’anno in cui sono stati percepiti, all’interno del quadro RM del Modello Unico persone fisiche di ciascun erede. Logicamente, avendo riguardo della quota di competenza di ciascuno di essi verranno assoggettati a tassazione separata. È però prevista, se ritenuta più conveniente dal dichiarante, anche la possibilità di optare per la tassazione ordinaria.

È evidente che quanto abbiamo appena descritto in merito all’obbligo di effettuazione di obbligazioni tributarie per conto del defunto, verrebbe meno qualora gli eredi rinuncino all’eredità secondo le modalità previste dall’articolo 519 del codice civile.

Estratto dal libro La successione nelle aziende – di Vannoni e Vernia.

2) La successione e il valore dello studio professionale

In merito al secondo punto preso in esame, ovverosia quali possano risultare le strategie più redditizie da perseguire, da parte degli eredi, per non disperdere, se non addirittura mantenere, il valore creato dal libero professionista prematuramente scomparso, occorre anzitutto delineare quali siano le ricchezze ascrivibili allo studio professionale.

Tralasciando i beni materiali, come le attrezzature o l’immobile in cui l’attività viene svolta, che manifestano un valore intrinseco spesso indipendente dalle loro modalità di utilizzo, sono soprattutto i beni immateriali a costituire il vero patrimonio dello studio ed a determinarne il valore realizzabile. Ci stiamo riferendo, in particolar modo, alle voci seguenti:

  • l’avviamento;
  • i dipendenti ed i collaboratori dello studio;
  • gli incarichi personali del professionista.

L’avviamento può essere definito in molti modi, ma, in ogni caso, potremmo affermare che esso costituisca una qualità che esprime l’attitudine dello studio a produrre reddito e, spostando la questione in un mero ambito imprenditoriale, corrisponde, obbedendo ad una definizione largamente condivisa dalla dottrina, al plusvalore dell’azienda determinato rispetto a quello derivante dalla somma algebrica dei singoli beni che la compongono. Tuttavia, considerato il rapporto fiduciario del tutto particolare e personale che si stabilisce tra il professionista ed il singolo cliente, non si può fare riferimento ad un metodo matematico sufficientemente affidabile per determinarne il valore come nel caso delle imprese.

Inoltre è la stessa natura personale sottostante al rapporto fiduciario che caratterizza il contratto d’opera professionale in sé a far sì che si debba escludere che l’avviamento possa riguardare la clientela dello studio professionale. Tuttavia, recentemente, la giurisprudenza ha considerato validamente e lecitamente stipulato il contratto di trasferimento a titolo oneroso della proprietà di uno studio professionale, anche per la parte in cui abbia per oggetto la cessione della clientela. Per quest’ultima infatti, secondo la Suprema Corte, è configurabile non già una cessione tout court, ma un semplice impegno assunto del soggetto cedente volto a favorire la prosecuzione del rapporto professionale tra i vecchi clienti ed il soggetto subentrante.

Il riconoscimento di tale impostazione si rivela vantaggiosa anche per i clienti stessi, i quali, di fronte alla perdita di quella che per loro rappresentava una figura di riferimento, potrebbero essere indotti a cercare altri professionisti in tempi brevi o brevissimi, con il rischio di affidarsi al primo venuto e non soppesare a sufficienza la scelta. È chiaro però che in caso della morte del professionista, tale “accompagnamento” dei clienti verso il professionista subentrante non può avvenire, rendendo tale operazione, se possibile, ancora più complessa da realizzare.

Estratto dal libro La successione nelle aziende – di Vannoni e Vernia.

3) Successione mortis causa studio professionale e capitale umano: dipendenti e collaboratori

Venendo ad occuparci del secondo punto, come qualsiasi professionista sa molto bene, al pari, se non di più, del portafoglio clienti, ciò che davvero “vale” nella propria attività risiede nei dipendenti e nei collaboratori. Dopo anni e anni di attività svolta in favore dello studio, perfettamente in grado di padroneggiare strumenti gestionali complessi e di intrattenere un rapporto consolidato e di reciproca fiducia con i clienti, costoro rappresentano una risorsa estremamente preziosa che, al pari della clientela, se venisse dispersa, rischierebbe di dividere in mille rivoli quel plusvalore che ha contribuito ad accumulare in lunghi periodi di attività professionale condivisa.

Ecco perché, riteniamo, monetizzare al massimo la vendita dello studio, da parte degli eredi, non può prescindere dalla preventiva conservazione dello staff formato e costruito nel corso degli anni. Anche perché, venuta meno quella che si può senza dubbio considerare la figura di riferimento dello studio, un dipendente od un collaboratore particolarmente valido, che si trovasse a passare in forza alla concorrenza sottoporrebbe gli eredi al rischio plausibile che una parte, anche consistente, della clientela possa seguirlo presso la nuova collocazione.

Estratto dal libro La successione nelle aziende – di Vannoni e Vernia.

4) Successione mortis causa studio professionale: gestione incarichi professionali non trasferibili

La terza questione che prendiamo in esame riguarda i cosiddetti incarichi professionali assunti dal professionista prima della sua morte. Se infatti i clienti abituali, per i quali venivano svolte pratiche o attività che si potrebbero definire routinarie (si pensi alla pulizia dei denti per un dentista, alla dichiarazione dei redditi per un commercialista o al check up annuale di un paziente per un cardiologo), possono tutto sommato, secondo quanto affermato precedentemente, ritenersi “trasferibili” ad un altro collega senza troppa difficoltà, una volta fatto ricorso a tutte le accortezze e le delicatezze del caso, esistono svariati incarichi, tipici dell’attività libero professionale, che non possono in alcun modo venire liberamente trasferiti: pensiamo al controllo legale dei conti effettuato dai revisori legali, oppure agli incarichi afferenti la gestione delle procedure concorsuali affidate a commercialisti ed avvocati civilisti, oppure ancora agli incarichi assunti in qualità di consulente tecnico d’ufficio nominato dal tribunale da geometri, medici, ingegneri, geologi ecc.

Al di là di ogni altra considerazione in merito, va da sé che, per loro natura, tali incarichi non possano venire trasferiti ad altro professionista in virtù di un libero accordo tra privati, ma debbano, giocoforza, venire gestiti in maniera completamente differente. In questo caso, evidentemente, non vi è possibilità alcuna, da parte degli eredi, di riuscire a monetizzare la cessione di tali incarichi a terzi. Anzi, dovranno essere gli eredi stessi a fare in modo che, per gli incarichi assunti a suo tempo dal de cuius, si possa procedere alla sostituzione del professionista deceduto senza arrecare danni ai terzi coinvolti, danni dei quali, oltretutto, saranno gli eredi stessi a correre il rischio di essere chiamati a rispondere.

Così, nel caso del decesso di un componente del collegio sindacale, si dovrà provvedere a comunicare l’avvenuta scomparsa del professionista, in modo tale che possa subentrare il sindaco supplente, oppure, nel caso del consulente tecnico d’ufficio, si dovrà comunicare al tribunale quanto avvenuto, in modo tale che il giudice possa provvedere tempestiva[1]mente alla nomina di un nuovo c.t.u.

Estratto dal libro La successione nelle aziende – di Vannoni e Vernia.

Fonte immagine: Foto di StockSnap da Pixabay
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