Il marchio[1] è un segno distintivo che permette di identificare e distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli delle altre imprese; di identificare soggetti specifici (quali ad esempio. le associazioni di categoria); di attestare l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi (marchi di qualità, di provenienza geografica, ecc.).
La legislazione italiana tutela i marchi per prevenirne l'uso improprio o fraudolento da parte di terzi, in quanto essi, quali elementi atti a rappresentare un'azienda, distinguere uno o più prodotti, o un particolare servizio, possono avere un valore economico anche significativo.
Tale valore economico consiste nel vantaggio commerciale che il marchio conferisce a chi ne fa uso:
- in via diretta, quando il marchio è utilizzato da chi ne è il proprietario;
- in via indiretta, quando il marchio è concesso in uso a terzi in cambio di una contropartita, generalmente denominata royalty.
La royalty è quindi il compenso che il proprietario del marchio riceve quando ne concede l'uso ad un altro soggetto. Le royalties sono spesso calcolate come percentuale sulle vendite dei prodotti o dei servizi che sfruttano tale diritto di proprietà industriale, e vengono di norma pagate periodicamente.
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1) Il trattamento fiscale delle royalties in ipotesi di attività commerciali e di lavoro autonomo: cenni
Quando le royalties sono percepite da un soggetto che opera secondo modalità commerciali, ossia in maniera continuativa e professionale, la loro tassazione può essere riassunta come segue.
Esse costituiscono redditi d'impresa se conseguiti da soggetti che agiscono nell’esercizio di una attività commerciale e, in ogni caso, se conseguiti da enti commerciali. In tal caso subiranno l’ordinaria tassazione, sia ai fini Ires/Irpef che Irap, partecipando al risultato d’esercizio dell’impresa che consegue le royalties.
Se non sono conseguiti nell’esercizio di impresa, le royalties costituiscono invece redditi di lavoro autonomo quando l’utilizzazione economica del bene è effettuata direttamente dal suo autore o inventore (art. 53, c.2, lett. b) del T.u.i.r.). Ai sensi dell’art. 54 c. 8 del T.u.i.r., il reddito percepito dall’autore viene determinato applicando al compenso percepito una deduzione forfettaria variabile a seconda della sua età:
- 40% nel caso in cui le royalties siano percepite da soggetti di età inferiore ai 35 anni;
- 25% nel caso in cui le royalties siano percepite da soggetti di età superiore ai 35 anni.
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2) Il trattamento fiscale delle royalties in caso di percezione da parte di soggetto non commerciale
Lo schema sin qui sinteticamente esposto non consente di delineare il trattamento tributario dei redditi che dall’utilizzo del marchio possono derivare ad un soggetto che li consegua in ambito non commerciale, caso meno frequente e perciò meno studiato, ma che merita un autonomo approfondimento.
È il caso, quindi, di marchi di proprietà di privati ed enti non commerciali; pur in assenza di intenti commerciali diretti, infatti, questo tipo di soggetti possono comunque divenire titolari in vario modo di tali beni immateriali, ad esempio perché li abbiano ricevuti in eredità o in donazione; oppure perché, senza l’intento di utilizzarli commercialmente, abbiano inizialmente registrato marchi i quali abbiano in seguito acquisito appetibilità commerciale (si pensi ai marchi riferibili ad attestazioni qualitative o di provenienza geografica in campo alimentare).
Quando si versa nella condizione descritta la determinazione del corretto trattamento tributario della fattispecie si presenta più complessa, in quanto non tipizzata (se non a contrario) dalla nostra normativa.
Ragion per cui, con riferimento ad un marchio utilizzato:
- da un soggetto non qualificabile come operatore economico;
- in via indiretta, ossia mediante concessione a soggetti terzi del suo sfruttamento;
sono riscontrabili ricostruzioni differenti, che comprendono anche posizioni secondo le quali tale fattispecie non produrrebbe redditi imponibili.
Pare intanto pacifico che un utilizzo siffatto non rientri nel campo di applicazione dell’Imposta sul Valore Aggiunto; in questo senso deve infatti considerarsi che l’Iva si applica solo alle cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell'esercizio di imprese, arti e professioni (art. 1 D.P.R. 633/1972).
L’art. 4 D.P.R. 633/1972 precisa inoltre che per esercizio di imprese si intende l'esercizio per professione abituale di attività commerciali[2]. Ne consegue che, ove l’attività svolta dal soggetto non sia connotata da modalità di svolgimento che la facciano rientrare nell’alveo delle attività commerciali, essa non sarà assoggettata ad Iva; ed infatti il c.4 dell’art. 4 precisa che per gli enti non commerciali si considerano effettuate nell'esercizio di imprese soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi che si realizzano nell'esercizio di attività commerciali.
Non è dunque il tipo di attività in sé che comporta l’assoggettamento ad imposta, ma le modalità con cui essa viene posta in essere: infatti, solo ove essa sia connotata dai requisiti di territorialità e di commercialità rientrerà nel campo di applicazione dell’imposta[3].
Sul punto, l’Agenzia delle Entrate, con risposta ad interpello n. 504/2022 del 12/10/2022 ha affermato che le royalties “rappresentano il corrispettivo di prestazioni di servizi riconducibili, ai fini IVA, nell'ambito delle cessioni o concessioni in uso di marchi o brevetti che, in presenza di requisiti soggettivi e territoriali, dovranno essere assoggettati ad IVA”. Così confermando, a contrario, che ove tali requisiti difettino le royalties non saranno assoggettate all’imposta.
Quando, cioè, il marchio o il diritto non sono utilizzati (mediante concessione a terzi) nell’ambito di impresa o professione (al di fuori quindi di un’attività commerciale) i redditi che ne derivano non possono essere assoggettati ad Imposta sul Valore Aggiunto.
Al contrario, nel caso sussistano i requisiti di commercialità, la prestazione è assoggettata all’imposta.
È invece nel campo delle imposte dirette che possono sorgere i maggiori dubbi sul regime impositivo delle royalties derivanti dalla concessione a terzi dell’utilizzo di un marchio.
Va infatti chiarito anzitutto che, laddove i redditi prodotti dall’utilizzo del diritto di proprietà industriale derivino da una gestione per così dire soltanto “passiva” degli stessi, non ci si troverà nell’ambito dei redditi di impresa.
Dato questo dirimente in quanto, come ben noto, tanto le persone fisiche quanto gli enti non commerciali - quei soggetti che l’art. 73 T.u.i.r. tipizza come enti pubblici e privati diversi dalle società che non hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciale - vedono i propri redditi suddividersi tra diverse possibili categorie, delle quali il reddito esaminato deve possedere le specifiche caratteristiche per andare soggetto a tassazione; che si applicherà, appunto, secondo i limiti e le regole della categoria tipica di appartenenza.
Medesima considerazione naturalmente, a regime, vale anche per gli Enti del terzo settore che si qualifichino come “ETS non commerciali”, giacché anche questi dovranno tassare separatamente le diverse tipologie di reddito di cui sono titolari (ricavi derivanti da attività di interesse generale svolte con modalità commerciali ed attività diverse, da tassarsi eventualmente con l’agevolazione del regime forfetario).
Va poi ricordato che, anche se l’ente dovesse inquadrarsi tra gli ETS di natura commerciale, in taluni casi anche questi soggetti possono svolgere alcune attività che non vengono considerate commerciali[4].
I redditi degli enti non commerciali, in particolare, possono anche comprendere il ricavato di attività qualificabili come commerciali, purché esse non siano prevalenti nell’ambito della più generale attività dell’ente.
Infatti, mentre l’articolo 81 del T.u.i.r. dispone che il reddito complessivo delle società e degli enti commerciali, da qualsiasi fonte provenga, si qualifica sempre come reddito d'impresa, il reddito complessivo degli enti non commerciali è invece formato da più categorie (art. 143 T.u.i.r.), potendo questi soggetti possedere redditi:
- fondiari;
- di capitale;
- di impresa;
- diversi.
Rientrano tra i redditi d'impresa, ai fini Ires (ai sensi dell'articolo 55 del T.u.i.r.) "quelli che derivano dall'esercizio di imprese commerciali" con ciò intendendosi "l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell'articolo 2195 c.c.”.
Ne deriva che le attività commerciali sono sì qualificate oggettivamente (“attività indicate nell’articolo 2195 c.c.”) ma richiedono quale condizione ulteriore quella della forma nella quale vengono svolte, ossia quella d’impresa, talché “un'attività si considera effettuata con organizzazione in forma di impresa quando, per lo svolgimento della stessa, viene predisposta un'organizzazione di mezzi e risorse funzionali all'ottenimento di un risultato economico. La commercialità dell'attività svolta, quindi, sussiste qualora detta attività sia caratterizzata dai connotati tipici della professionalità, sistematicità ed abitualità”[5].
Si tratta dunque, com’è evidente, di verificare le modalità con le quali una determinata attività viene svolta da parte dell’ente non commerciale, che possono qualificare la medesima attività come imprenditoriale o, al contrario, farla rientrare in una delle altre categorie reddituali previste[6].
In altre parole, se sia ravvisabile il requisito organizzativo dei mezzi di produzione del reddito, proprio dell’imprenditore, ossia la predisposizione degli elementi necessari allo svolgimento dell’attività economica. O, al contrario, se si sia in presenza della semplice percezione di proventi che derivano dal possesso di un bene senza che ciò comporti attività ulteriori.
Il principio che se ne ricava è dunque che, ogni qual volta si sia in presenza di attività che si limitano al passivo godimento dei frutti di un bene, sia esso immobiliare o mobiliare, non può parlarsi di attività commerciale, non essendo configurabile una attività di impresa, ma si verterà, a seconda dei casi, nelle fattispecie dei redditi fondiari, di capitale o diversi.
Per quanto riguarda le royalties, nel caso in cui ci si limiti a percepire i frutti del bene posseduto ed il soggetto percipiente non sia pertanto inquadrabile nella categoria dell’imprenditore (difettando il requisito della gestione attiva), esse andranno qualificate tra i redditi diversi.
Per l'esattezza, esse rientreranno nella previsione dell'art. 67 c.1 lett l del TUIR, ossia tra "i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere"[7].
Si evidenzia, da ultimo, che tali redditi andranno assoggettati a ritenuta ai sensi dell’art. 25 del D.P.R. 600 del 29/9/1973.
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3) Royalties derivanti dal possesso di marchi da parte di privati ed ETS: note
[1] Si userà, nel presente contributo, la generale denominazione marchio per designare le diverse fattispecie suscettibili di protezione ai sensi degli art. 2569 e seguenti del Codice civile nonché del vigente Codice della proprietà industriale (Decreto legislativo, 10/02/2005 n° 30, artt. 6 e seguenti), quali i marchi, i marchi collettivi, i marchi di certificazione, ecc..
[2] Nei limiti dell’ambito così delineato (cessione di beni e prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell'esercizio di imprese, arti e professioni), l’art. 3 del Decreto qualifica specificamente quali prestazioni di servizi, se effettuate verso corrispettivo, “le cessioni, concessioni, licenze e simili relative a diritti d'autore, quelle relative ad invenzioni industriali, modelli, disegni, processi, formule e simili e quelle relative a marchi e insegne, nonché le cessioni, concessioni, licenze e simili relative a diritti o beni similari ai precedenti”.
[3] “Invero in tale contesto - concessione del marchio da parte del titolare non esercente attività d’impresa, che dunque si limita ad incassare le royalties ovvero dei passive income - appare corretto affermare l’insussistenza del presupposto soggettivo trattandosi di un’”operazione” che, sebbene ricorrente, non concreta l’esercizio di alcuna “attività”, come tale neppure inquadrabile sub specie di attività di impresa” - E. Belli Contarini: “Regime fiscale delle royalties derivanti dalla licenza di un marchio da parte di un privato”, in Rivista di Diritto Tributario, aprile 2019 (https://www.rivistadirittotributario.it/2019/04/12/regime-fiscale-delle-royalties-derivanti-dalla-licenza-un-marchio-parte-un-privato/).
[4] Ad esempio, l’articolo 79 del D.lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (Codice del Terzo Settore) presenta una serie di casistiche nelle quali le attività c.d. di interesse generale si considerano svolte con modalità non commerciali. Si noti che l’art. 5, c.1, lettera o) del Decreto elenca tra le attività di interesse generale la concessione in licenza di marchi di certificazione.
[5] Agenzia delle Entrate, risposta interpello nr. 481 del 2020.
[6] Ragion per cui, nella medesima risposta 481, si affermava “il ruolo effettivamente svolto dall'ente non commerciale deve sostanziarsi in una gestione statico-conservativa delle partecipazioni, in cui l'impiego delle risorse patrimoniali deve essere finalizzato alla percezione di utili da destinare al raggiungimento degli scopi istituzionali. In tale ultimo caso la detenzione di partecipazioni, acquisite anche tramite donazione, non configura l'esercizio di attività di impresa ed i dividendi percepiti costituiscono redditi di capitale.
Diversamente nell'ipotesi in cui la detenzione di partecipazioni societarie venga effettuata nell'ambito di un'attività gestita con i connotati tipici dell'attività commerciale (professionalità, sistematicità e abitualità), la stessa, produrrà reddito d'impresa”.
Sulla medesima posizione, in merito alla commercialità delle attività, la Circolare Agenzia delle Entrate n. 15 del 17/05/2022 in tema di riduzione dell'aliquota Ires per gli enti non commerciali, nella quale si afferma “Si ritiene opportuno, in termini generali, precisare che il mero godimento del patrimonio immobiliare, finalizzato al reperimento di fondi necessari al raggiungimento dei fini istituzionali dell'ente, si configura quando la locazione di immobili si risolve nella mera riscossione dei canoni, senza una specifica e dedicata organizzazione di mezzi e risorse funzionali all'ottenimento del risultato economico. In linea di principio, infatti, la mera riscossione dei canoni da parte dell'ente religioso, così come l'esecuzione dei pagamenti delle spese riferite agli immobili, non implica di per sé l'esercizio di un'attività commerciale”.
[7]Sul punto:
- C.T.R dell’Emilia Romagna, Sent. 703 del 25/2/2019: “Si può affermare, invero, che proventi ottenuti dall'utilizzazione economica di marchi aziendali da parte di soggetti privati non-imprenditori generano reddito imponibile, il cui trattamento fiscale è riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 67 co.1 lett. I) T.u.i.r.”
- G. Rebecca, M. Ceccon: “Concessione in licenza di un marchio da parte dei privati: quale trattamento fiscale?“, in Il Fisco nr. 17/2014.
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