La recente riforma della giustizia e del processo tributario ha apportato una novità concernente le modalità di riparto dell'onere della prova con l’introduzione del comma 5 bis all'articolo 7, D. lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 in vigore dal 16 settembre 2022.
Tale disposizione stabilisce che “L'amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati.”
Viene così superata anche l’applicabilità, in ambito tributario, dell’articolo 2697 c.c. secondo cui chi promuove l'azione, l'amministrazione finanziaria, deve provare i fatti costitutivi della stessa mentre al contribuente spetta l'onere di provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi.
Pertanto, la novella normativa apre nuove prospettive stabilendo che in ogni caso ricade sull'amministrazione finanziaria l'onere di provare in giudizio le violazioni contestate, con la conseguenza che debba essere il fisco a dimostrare le violazioni commesse dal contribuente. Si supererebbe così anche l'orientamento giurisprudenziale secondo cui la prova dei maggiori ricavi ricada sull'amministrazione finanziaria e, al contrario, quella in ordine a costi e oneri in ogni caso sul contribuente che ne opponga l'effettiva sussistenza ed inerenza.
Sembrerebbe, dunque, che la legge imponga il dovere degli Uffici dell’Amministrazione Finanziaria di dare un giudizio, una prova circostanziata, puntuale e specifica con riferimento a quanto di volta in volta viene richiesto dalle norme tributarie, dei fondamenti di fatto della maggior pretesa e delle correlate sanzioni. In definitiva, in tema di inerenza, i consolidati orientamenti giurisprudenziali che evocavano un diverso riparto dell’onere della prova devono essere superati.
1) Onere della prova e Fisco: prime pronunce delle Corti di Giustizia Tributaria
Recenti decisioni della Corte di giustizia tributaria (Cgt dell’Emilia Romagna, 499/04/2023, Cgt Emilia-Romagna n. 90/08/2023, Cgt Siracusa n. 3856/05/2022, Cgt Reggio Emilia n. 281/01/2022) hanno ritenuto infondato l’appello dell’Amministrazione Finanziaria per non aver addotto elementi idonei a provare la pretesa e quindi non aveva assolto all’onere dimostrativo.
Al contrario della Cassazione che, con l’ordinanza n. 33568/2022, aveva ribadito come l’onere della prova continui a gravare sul contribuente in tema di inerenza dei costi, confermando quanto sostenuto sempre dalla giurisprudenza di legittimità e dalla prassi dell’amministrazione finanziaria, ovvero che nella determinazione del reddito d’impresa l’onere di provare la sussistenza delle componenti del reddito e dei requisiti di certezza e determinabilità incomba sull’amministrazione finanziaria con riferimento a quelle positive e sul contribuente per quelle negative.
Con il novellato articolo 7, comma 5-bis, del D.lgs. 546/92 si supera finalmente l’annosa criticità sull’applicabilità del richiamo all’articolo 2697 del Codice civile sul riparto dell’onere probatorio attribuendo questo onere all’ufficio, non solo per i ricavi ma anche per i costi, non essendo questi ultimi una agevolazione concessa al contribuente, ma elemento implicito nella determinazione del risultato d’esercizio e del reddito imponibile.
La Corte di giustizia tributaria di primo grado di Siracusa (sezione 5), con sentenza 23 novembre 2022 n. 3856, si è espressa in tal senso sovvertendo la concezione secondo la quale spetterebbe al contribuente l’onere di provare l’esistenza dei costi, valorizzando anche il concetto di reddito d’impresa ed il criterio di determinazione ad esso sottostante. In particolare, è stato evidenziato come i costi e ricavi, anche se con segno opposto, concorrono entrambi alla quantificazione del reddito d’impresa quale valore netto, superando l’ambiguità sulla dicotomia costi-ricavi in cui è incorsa, ai fini dell’incombenza dell’onere probatorio, la giurisprudenza di legittimità che con l’entrata in vigore del comma 5-bis non ha più ragione di esistere, incombendo sempre e comunque sull’Ufficio l’onere di provare i presupposti della pretesa.
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2) Verifica fiscale e contribuente: esibizione documenti giustificativi
Durante la verifica fiscale i funzionari dell’Amministrazione finanziaria potranno sempre richiedere i documenti giustificativi, ad esempio dei costi e ogni altro documento o informazione rilevante, e potrà negare la deduzione se li ritiene non significativi. Il contribuente sarà sempre tenuto ad esibire quanto richiesto, subendo se del caso gli effetti della preclusione probatoria dell'art. 32 co. 4 del DPR 600/73.
Il giudice, a sua volta, sarà legittimato ad annullare l’atto impositivo in assenza della prova dei fatti costitutivi della pretesa, ma anche quando quella prova sia contraddittoria o insufficiente e non siano state circostanziate e puntualizzate le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa impositiva.
3) Società benefit e inerenza dei costi alla luce della recente novità sull'onere della prova
L’amministrazione finanziaria ad oggi ha ritenuto non necessario pronunciarsi sulla criticità sollevata alla sua attenzione circa la deducibilità dei costi sostenuti dalle società benefit per le attività collegate al perseguimento del beneficio comune statutariamente previsto nell’oggetto sociale.
L’introduzione delle società benefit (con la L. 208/2015) ha destato qualche dubbio circa il trattamento fiscale di tali costi mancando una disposizione fiscale sulla loro possibile deducibilità e di come conciliare il principio di inerenza con l’obbligo di operare in modo sostenibile bilanciando gli interessi dei soci, quello degli altri portatori di interessi e il perseguimento delle finalità di beneficio comune.
La criticità è senza dubbio superata a partire dai principi generali.
A partire dall’ordinanza 450/2018 della Cassazione, infatti, l’inerenza rappresenta il collegamento che si ha tra un componente di reddito e l’attività economica esercitata (non quindi con i ricavi), o da esercitarsi in via prospettica, quindi è valutata nella determinazione del reddito d’impresa dal punto di vista qualitativo e, trattandosi di un principio sovraordinato, non può che farsi derivare dalla previsione dell’articolo 109, comma 5, del Tuir.
Inoltre dalla stessa normativa benefit, prevedendo delle disposizioni ad hoc, discende che:
- il perseguimento delle finalità di beneficio comune è condizione imprescindibile affinché una società possa qualificarsi come “benefit”;
- l’inosservanza degli obblighi previsti costituisce specifico inadempimento dei doveri imposti agli amministratori
- per garantire la trasparenza dell’operato della società, applicando sanzioni in materia di pubblicità ingannevole e demandando la vigilanza all’Autorità antitrust.
Pertanto la realizzazione di attività di beneficio comune deve essere considerata connaturata all’attività economica della società. L’indissolubile legame tra la spesa e l’attività dell’impresa, ovvero il principio di inerenza, si realizza anche per tutti gli oneri sostenuti per il perseguimento delle finalità di beneficio comune specificatamente indicate nell’oggetto sociale.
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4) Società benefit e deducibilità dei costi: il principio di sussidiarietà circolare
In soccorso della deducibilità dei costi “benefit” viene anche il principio di sussidiarietà circolare di cui al comma 4° dell’art. 118 della Costituzione alla base della cooperazione tra enti pubblici enti non profit e società civile, e secondo cui “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Inoltre, la Costituzione assegna alle imprese non solo il fine di lucro, ma anche altre funzioni declinate esplicitamente e potenzialmente al perseguimento «dell’interesse generale» ai sensi dell’art. 43 Cost. o altresì indirizzandone l’azione verso «fini sociali» non potendosi svolgere, l'iniziativa economica, in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all'ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana come si evince dall’art. 41 Cost.
Dal combinato disposto tra gli artt. 41, 43 e 118 4° co. della Cost. deriva che le imprese in qualità di corpi intermedi, qualora diventino parte attiva nel perseguire attività di interesse generale, debbano poter beneficiare della stessa tutela prevista dal principio di sussidiarietà orizzontale, oltre che assumersi la relativa responsabilità.
Dalla sussidiarietà circolare derivano dei benefici in termini di:
- maggior efficienza ed efficacia nell’affrontare i problemi della collettività;
- la corresponsabilità di tutti nei confronti dei beni comuni;
- nuova funzione degli enti pubblici che è pubblica non perché è «interesse dello Stato» ma perché è «utile alla società» rispondendo in modo migliore alle esigenze della collettività.
Pertanto, una Società Benefit è tutelata da questo principio, in quanto parte attiva nel perseguire un interesse generale (prendersi cura del bene comune) mediante le sue attività per il perseguimento di finalità di beneficio comune.
Il perseguimento di finalità di beneficio comune, con indubbia utilità pubblica nei confronti degli stakeholders, rappresenta, al pari dell’attività commerciale, il core business della società stessa poiché contemplata nell’oggetto sociale del proprio statuto.
I costi sostenuti dalla società benefit per l’attività con finalità di benefico comune sono da considerarsi pertanto idonei a creare benefici, diretti e indiretti all’attività di impresa nel suo complesso, valorizzando le libere scelte imprenditoriali.
L’attività di beneficio comune genera:
- delle utilità in termini reputazionali per l’impresa, con potenziale incremento dei ricavi;
- dei vantaggi alla collettività;
- una minore spesa a carico dello Stato.
Ne deriva anche la non condivisione della tesi secondo cui alle finalità di beneficio comune concorrano i contribuenti per effetto del minore reddito di impresa dichiarato dalle società benefit, e con conseguente lesione degli artt. 3 e 53 Cost. e conseguente minor gettito fiscale.
Alla luce delle analisi suesposte, sarebbe dunque arduo per l’Amministrazione finanziaria, qualora dovesse contestare la deducibilità dei costi sostenuti dalle società benefit per le attività collegate al perseguimento del beneficio comune statutariamente previsto nell’oggetto sociale, provarne, alla luce della riforma del contenzioso tributario, la non inerenza e quindi indeducibilità, disconoscendo il legame tra la spesa e l’attività dell’impresa che ricomprende anche le finalità di beneficio comune.
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