Si è svolto lo scorso 10 maggio 2023 l’interessante incontro “VII Laboratorio tributario – Onere della prova e rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione”, organizzato dalla “Struttura di formazione decentrata presso la Corte di cassazione”.
L’obiettivo del convegno era quello di sensibilizzare la magistratura tributaria, di merito e di legittimità, su alcune questioni recentemente fatte oggetto di importanti interventi normativi.
Per tale ragione è stato istituito un gruppo di lavoro che ha predisposto un questionario propedeutico alla sessione conclusiva dell’iniziativa presso l’Aula Magna della Corte di cassazione, nel corso della quale è stata a lungo analizzata l’applicazione della nuova norma sull’onere della prova nel processo tributario, introdotta dal comma 5 bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, in determinate fattispecie concrete, tra cui, in materia di IVA, quella delle operazioni soggettivamente inesistenti.
Vediamo i risultati e un commento alle conclusioni raggiunte, la posizione della giurisprudenza Comunitaria sul tema.
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1) Elementi di consapevolezza della frode fiscale secondo i giudici tributari
In relazione a tale fattispecie, il citato gruppo di lavoro aveva chiesto ai giudici tributari quali siano «le circostanze che possono essere addotte dall’Amministrazione per provare la consapevolezza del cessionario di partecipare a uno schema fraudolento e a fronte delle quali il contribuente è onerato della prova contraria» e, quindi, condurre legittimamente alla negazione del diritto alla detrazione.
Queste le risposte fornite:
- Per il 43% dei magistrati intervistati tali circostanze sarebbero costituite dalla «non disponibilità di una sede da parte del cedente e la mancanza di un doppio passaggio fisico della merce»,
- per il 14% dal «mancato riscontro, in sede di verifica, delle richieste dell’Amministrazione da parte del cedente e il mancato versamento dell’imposta all’Erario da parte del cedente»,
- per il 38% dalla «mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali da parte del cedente, la mancata pubblicazione dei bilanci ed il mancato possesso delle autorizzazioni necessarie da parte di questi» e
- per il 5% da «Nessuna delle precedenti».
A modesto avviso di chi scrive la risposta che appare più convincente è quella data dal 5% degli intervistati, non tanto in considerazione dell’avvento del nuovo comma 5 bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, quanto piuttosto alla luce della consolidata giurisprudenza unionale, che già in precedenza avrebbe dovuto costituire un riferimento per il giudice tributario.
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2) Operazioni inesistenti: la responsabilità del committente nella Giurisprudenza UE
La CGUE ha sempre rifiutato un sistema di “responsabilità oggettiva” del “committente/cessionario” rispetto alla frode o all’evasione di IVA perpetrata dal soggetto che emettendo la fattura appare essere il fornitore (tra le tante: ordinanza 3.9.2020, causa C-610/19, Vikingo Fővállalkozó; sentenza 6.12.2012, causa C-285/11, Bonik; sentenza 21.6.2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahagében e Dávid), e per tale ragione ritiene che, in presenza di operazioni di acquisto realmente effettuate, la necessaria prova della consapevolezza da parte del “committente/cessionario” dell’evasione o della frode IVA perpetrata dal “fatturante” presuppone che l’Autorità fiscale nazionale non si limiti alla sola prospettazione di quegli elementi di fatto da cui presumere che il soggetto che ha emesso la fattura non sia l’effettivo fornitore del bene o del servizio (tra le tante: sentenze 22.10.2015, causa C-277/14, PPUH Stehcemp e 13.12.2014, causa C-18/13, Maks Pen e sentenza 21.6.2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahagében e Dávid), dovendo, viceversa, addurre elementi oggettivi diversi dalla semplice sostanziale fittizietà del “fatturante” o dal mero inadempimento da parte di quest’ultimo degli obblighi fiscali dichiarativi e di versamento previsti in materia di IVA.
Più nello specifico, analizzando le svariate fattispecie concrete portate all’attenzione dei Giudici unionali emerge che l’Autorità fiscale nazionale, al fine di provare che la parte acquirente sapesse, o avrebbe dovuto sapere con l’ordinaria diligenza professionale, che l’operazione commerciale compiuta si iscriveva in un’evasione o in una frode IVA, non può limitarsi a dare dimostrazione dei seguenti elementi “oggettivi”:
- a) inesistenza sostanziale dell’impresa fatturante, sia essa accertata in altra sede giudiziale (sentenza 3.10.2019, causa C-329/18, Altic) o desumibile dal fatto che «non era registrata ai fini dell’IVA, non presentava dichiarazioni fiscali e non pagava le imposte […] non procedeva alla pubblicazione dei suoi conti annuali e non disponeva dell’autorizzazione di vendita di combustibile liquido», che «l’immobile indicato come sua sede sociale nel registro delle imprese è in stato fatiscente, circostanza che rende impossibile qualsiasi attività economica» e che «ogni tentativo di entrare in contatto» con essa «o con la persona iscritta in qualità di suo direttore nel registro delle imprese si è rivelato infruttuoso» (citata sentenza PPUH Stehcemp);
- b) l’impresa fatturante è sprovvista degli attivi, dei mezzi umani e materiali necessari per eseguire la fornitura o non era precedentemente in possesso dei beni indicati nella fattura e il soggetto “committente/cessionario” non ha svolto verifiche in tal senso (cfr., ex multis, ordinanza 13.11.2020, causa C-611/19, Crewprint; sentenza 6.9.2012, causa C-324/11, Tóth; sentenza 18.7.2013, causa C-78/12, «Evita-K»; sentenza 31.1.2013, causa C-642/11, Stroy trans e citate sentenze Maks Pen, Mahagében e Dávid e PPUH Stehcemp);
- c) l’omesso adempimento da parte del soggetto emittente la fattura dei propri obblighi di dichiarazione e di versamento dell’IVA (tra le tante: sentenza 31.1.2013, causa C-643/11, LVK – 56 e sentenze PPUH Stehcemp, «Evita-K», Tóth e Mahagében e Dávid);
- d) il mancato possesso da parte dell’impresa fatturante della “licenza di imprenditore individuale”, di un numero di partita IVA o di “qualsivoglia autorizzazione o licenza concessa dall’amministrazione ai fini dell’esercizio di un'attività economica” (sentenze PPUH Stehcemp e Tóth).
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