Con la riproposizione dell’assegnazione agevolata dei beni ai soci (art. 1, commi da 100 a 105 della legge n.197/2022), le società di persone e di capitali possono estromettere dal regime d’impresa, a condizioni estremamente vantaggiose, i beni immobili ed i beni mobili registrati non strumentali.
Con particolare riferimento ai beni immobili, si possono pianificare delle operazioni che vanno oltre la semplice assegnazione ai soci, prevedendo anche la successiva vendita ad un terzo acquirente, che sia ad oggi già individuato o anche solo da individuare. Si deve ricordare, a tale proposito, che il valore di assegnazione (da cui può derivare la plusvalenza sulla quale è dovuta l’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi e dell’Irap nella misura dell’8 o del 10,5 per cento) costituisce, per l’assegnatario, costo fiscalmente riconosciuto del bene immobile, per cui in una eventuale rivendita è proprio a partire da quel valore che si devono fare i calcoli per determinare la plusvalenza da assoggettare al regime ordinario.
È adesso, però, al momento dell’assegnazione, che bisogna ragionare sul da farsi ed ottimizzare il carico fiscale allo scopo di massimizzare il guadagno della vendita dell’immobile. Si deve, al riguardo, fin da subito precisare che in questa pianificazione del risparmio fiscale e nella consequenzialità tra assegnazione e vendita non vi è alcun comportamento elusivo e nessun abuso del diritto contestabile ai sensi dell’articolo 10-bis della legge n.212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente).
Ciò perché una delle finalità della disciplina dell’assegnazione agevolata, manifestata in modo chiaro e limpido dalla relazione al disegno di legge della precedente (ma identica) versione della disciplina (art. 1, commi 115-120 della legge n.208/2015) è proprio quella di dare impulso al mercato immobiliare, favorendo la circolazione di immobili che, senza l’assegnazione agevolata, resterebbero “prigionieri” delle società e non potrebbero essere destinati a nuovi acquirenti capaci di farne un uso più produttivo.
La sequenza assegnazione-rivendita, come alternativa fiscalmente più vantaggiosa alla vendita diretta, è dunque pienamente legittima, come confermato anche dall’Agenzia delle entrate con la risoluzione n.93 del 17 ottobre 2016, nella quale è stato pubblicato un interpello (presentato, peraltro, dall’autore di questo articolo) nel quale si sottoponeva esattamente il caso che qui si vuole esaminare, che ora sarà meglio illustrato analizzandone anche le possibili varianti.
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1) Il calcolo della plusvalenza
Occorre ricordare che la disciplina dell’assegnazione agevolata dei beni ai soci è così tanto favorevole ai contribuenti essenzialmente per due ragioni:
- perché permette di sostituire alla fiscalità ordinaria, rappresentata dall’imposizione della plusvalenza da assegnazione con Irpef o Ires (a seconda della natura della società assegnante) nonché dalla quantificazione del dividendo in funzione del valore normale del bene (ulteriore tassazione per i soci delle società di capitali) un’imposta sostitutiva con aliquota notevolmente più mite (8 per cento o 10,5 per cento);
- perché permette di valorizzare il bene immobile, ai fini del calcolo della plusvalenza, non in funzione del suo valore di mercato ma in funzione del suo valore catastale (che si ottiene moltiplicando la rendita per coefficienti variabili a seconda della natura del bene, ex art. 52, comma 4, del D.p.r. 131/86), che di solito è – anche di molto - inferiore.
Nella maggior parte dei casi in sede di assegnazione agevolata si farà ricorso al valore catastale, allo scopo di conseguire un immediato risparmio d’imposta nell’intestazione del bene immobile alla persona fisica socia (fermo restando che l’assegnazione agevolata può essere effettuata anche quando il socio ha forma societaria: le considerazioni che seguono, quindi, possono essere estese mutatis mutandis anche ai soggetti societari che vendono l’immobile assegnato). Vi potrebbero essere dei casi, però, in cui il valore più basso non rappresenta la soluzione più efficiente in un’ottica complessiva di risparmio fiscale.
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2) Vendita dell’immobile già programmata
Per individuare i casi in cui non conviene fare ricorso al valore catastale, si deve partire dalla disciplina ordinaria delle plusvalenze realizzate al di fuori del regime di impresa con la vendita di immobili. La norma di riferimento sul punto è l’ art. 67, comma 1, lett. b) del D.p.r. 917/86 (T.U.I.R.), a mente del quale la vendita di un bene immobile da parte del socio assegnatario è imponibile qualora dia luogo a plusvalenza realizzata prima che siano trascorsi cinque anni dall’acquisto del bene.
Restando solo sul caso generale e tralasciando regole particolari che non sono utili allo scopo (impiego dell’immobile come prima casa, acquisizione per successione, etc…), l’assegnazione al valore catastale non sembra l’ipotesi più conveniente se è prevista una immediata rivendita del bene al un valore di mercato. Converrà, invece, assegnare il bene al già noto o presumibile prezzo di vendita, affrancando così fin dal momento dell’assegnazione la plusvalenza derivante dalla futura cessione, grazie al solo pagamento dell’imposta sostitutiva; la successiva vendita non sarà gravata da alcun ulteriore onere impositivo poiché non emergerà alcuna plusvalenza.
Si proverà ora a chiarire meglio questo meccanismo con un esempio.
Si ipotizzi di avere un immobile acquistato al prezzo di 300.000 euro e completamente ammortizzato, il cui valore catastale è 100.000 euro, mentre il valore di mercato è 500.000 euro. L’assegnazione al valore catastale (imposta sostitutiva 8.000 euro) comporterà che, in caso di vendita (nei cinque anni dall’assegnazione) al prezzo di 500.000 euro, il socio assegnatario dovrà pagare l’Irpef su di una plusvalenza di 400.000 euro. È evidente che, se vi è una concreta prospettiva di vendita nel breve periodo dell’immobile, o ancora di più nel caso si sia già proposto un acquirente, convenga assegnare l’immobile avvalendosi del valore di mercato di 500.000 euro (imposta sostitutiva 40.000), cosicché la successiva vendita a quel prezzo non generi alcuna plusvalenza. |
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3) Trasformazione in società semplice
Ancora meglio si può fare se ci sono i presupposti per la trasformazione agevolata in società semplice (ovvero se i soci sono tutti d’accordo e non vi è più alcuna attività produttiva da esercitare, ma solo immobili da gestire). Nell’esempio sopra proposto, infatti, si potrebbe effettuare l’operazione agevolata prendendo come riferimento il valore catastale di 100.000 euro (con conseguente imposta sostitutiva di 8.000 euro) e subito dopo rivendere l’immobile a 500.000 euro senza generare alcuna plusvalenza fiscalmente rilevante, se tra l’acquisto dell’immobile (risalente a prima della trasformazione) e la vendita sono passati i cinque anni di cui all’art. 67, comma 1, lett.b) del T.U.I.R.
Alla società semplice, infatti, sono applicabili le regole fiscali delle persone fisiche, per cui le plusvalenze da vendita di immobili sono imponibili ai fini Irpef solo se rientrano nella previsione di cui al menzionato articolo 67 del T.U.I.R. Poiché, a tale fine, rileva la data di acquisto dell’immobile, e poiché la trasformazione non comporta un nuovo acquisto da parte della società semplice, il quinquennio inizia a decorrere dall’acquisto ante trasformazione, con il risultato che in molti casi sarà già trascorso al momento della trasformazione agevolata.
Perciò, il riferimento al valore catastale nell’esempio proposto permette di perfezionare la trasformazione agevolata, mentre la successiva cessione dell’immobile potrebbe essere non soggetta all’Irpef, indipendentemente dall’ammontare del corrispettivo che la società semplice dovesse percepire.
A questo proposito, è utile ricordare che la distribuzione ai soci del provento della vendita dell’immobile, in quanto relativo ad una fattispecie estranea al T.U.I.R., non fa diminuire il costo della partecipazione dei soci percipienti; non si configura, quindi, il rischio che una distribuzione eccedente il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione faccia nascere una fattispecie imponibile in capo al socio (sul punto vi è stata conferma dell’Agenzia delle entrate nelle risposte ad interpello n.689, 691 e 754 del 2021).
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4) Le imposte indirette
Nel corso di una trattativa di vendita che inizia con la società e si profila concludersi con dei soci persone fisiche o con una società semplice, potrebbe essere sollevato dall’acquirente il tema delle maggiori imposte indirette che resterebbero a suo carico a causa della differente natura giuridica del venditore, in particolare nel caso in cui oggetto della vendita sia un immobile strumentale.
Si deve ricordare, infatti, che ai sensi dell’art. 10, comma 1, n.8ter) del D.p.r. 633/72, la vendita da parte di un soggetto Iva di un immobile strumentale è esente da imposta sul valore aggiunto, oppure può esservi assoggettata per opzione. In entrambi i casi, l’acquirente si troverà, per lo più, inciso del solo onere delle imposte ipotecaria e catastale con aliquota (complessiva) del 4 per cento, non essendo dovuta l’imposta di registro, se non nella misura fissa, a causa dell’applicazione del principio di alternatività con l’iva di cui all’articolo 40 del D.p.r. 131/86.
Con acquisto da privato (o da società semplice), l’acquirente dovrebbe invece corrispondere l’imposta di registro con l’aliquota del 9 per cento, per cui (pur tenendo conto del minor pagamento delle imposte ipotecaria e catastale, non dovute con aliquota proporzionale) ne avrebbe un aggravio impositivo.
Come però risulta piuttosto evidente dall’esempio numerico fornito, ci sono i margini perché, qualora lo ritenga opportuno, il venditore stesso si faccia carico della maggiore imposta di registro, praticando una riduzione (del 5 per cento) del corrispettivo di vendita, trovandosi ugualmente un incasso netto ben maggiore di quello che avrebbe potuto conseguire nel regime ordinario.
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