È noto che per la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea le amministrazioni degli Stati membri, comprese quelle fiscali, ogni qual volta intendano adottare un atto che rientri nella sfera di applicazione del diritto unionale (ad esempio in materia di IVA) che arrechi pregiudizio al destinatario, devono consentire a quest’ultimo di beneficiare del contraddittorio endoprocedimentale, ovvero del diritto a manifestare il proprio punto di vista relativamente agli elementi in forza dei quali l’amministrazione fiscale intende adottare un atto che possa arrecargli un detrimento (sentenza causa C-189/2018, Glencore Agriculture Hungary; sentenza 3.7.2014, cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics).
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1) Il diritto alla difesa per la Corte di Giustizia Europea
Per la Corte di Giustizia tale prerogativa, oltre a essere espressione del più generale diritto a una buona amministrazione (art. 41 Carta dei diritti fondamentali), costituisce parte integrante del rispetto dei diritti della difesa, principio fondamentale dell’ordinamento giuridico UE (artt. 41, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione) a cui deve conformarsi ogni procedimento amministrativo che rientri tra le materie legiferate a livello unionale e, di conseguenza, anche l’Autorità tributaria nell’esercizio del potere impositivo finalizzato a garantire la riscossione integrale dell'IVA dovuta sul territorio dello Stato membro interessato e la lotta avverso le frodi fiscali (sent. 29.11.2019, causa C-189/18, Glencore Agriculture Hungary).
Tuttavia, dalla giurisprudenza della CGUE emerge che, in materia di IVA e di altri tributi armonizzati, la violazione del diritto al contraddittorio endoprocedimentale determina la radicale illegittimità dell’atto impositivo qualora, in assenza di tale irregolarità, il procedimento amministrativo avrebbe potuto concludersi con un risultato diverso (sent. 4.6.2020, causa C-430/19, SC C.F. SRL), alla luce delle ragioni e delle osservazioni non pretestuose che il contribuente avrebbe potuto rappresentare in quella sede e che è chiamato a evidenziare nel successivo contenzioso (Cass. nn. 12412/2022, 3004/2022).
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2) Una recente sentenza della Corte di Cassazione sul tema del diritto al contraddittorio del contribuente
Nel solco di tale quadro normativo e giurisprudenziale si colloca l’ordinanza 29.7.2022, n. 23729 emessa dalla VI sezione civile della Corte di Cassazione che si fa apprezzare per aver escluso in modo categorico che, l’esperimento del procedimento di accertamento con adesione successivo all’emanazione di un avviso di accertamento “a tavolino”, consenta all’Agenzia delle entrate di sanare, rispetto all’IVA, la violazione del diritto del contribuente al contraddittorio endoprocedimentale.
In effetti, se l’obbligo del contraddittorio è finalizzato a consentire al contribuente di esprimere preventivamente il proprio punto di vista sulle ragioni e sui presupposti di fatto in base ai quali l’Agenzia delle entrate intende accertare maggiore IVA, va da se che lo svolgimento postumo di un contraddittorio in sede di accertamento con adesione non è idoneo a perseguire tale obiettivo, a maggior ragione se si considera che tale ultimo procedimento amministrativo, finalizzato alla composizione bonaria della lite potenziale, non può concludersi con l’annullamento integrale dell’atto di accertamento, eventualità a cui può ambire il contraddittorio endoprocedimentale.
Nello specifico, la citata ordinanza n. 23729, nel confermare sul punto il decisum della CTR Emilia Romagna, ritiene che “deve decisamente respingersi l’idea che … l’esigenza primaria … correlata al diritto di essere ascoltati da parte dell’Amministrazione possa essere realizzata con un succedaneo rappresentato dall’istituto dell’accertamento con adesione – che persegue intenti totalmente diversi essenzialmente collegati ad esigenze di natura deflattiva del contenzioso - per di più correlate ad istanze che muovono o dal contribuente … o dalla stessa Amministrazione” concludendo, in maniera perentoria, che “Ciò rende incompatibile detto istituto con le finalità perseguite dal riconoscimento del diritto al contraddittorio endoprocedimentale nel modo che esso è stato fin qui declinato dal diritto vivente”.
Del resto, seppur in materia di “accertamento da studi di settore”, la Sezione tributaria della Corte di Cassazione già nella sentenza 24.11.2016, n. 24003, aveva escluso il “recupero a posteriori” del contraddittorio preventivo attraverso l’istituto dell’accertamento con adesione, rilevando che “se la finalità del contraddittorio, nell’ambito del procedimento di accertamento fondato sugli studi di settore, è quella di avvalorare la correttezza dell’accertamento, proprio alla luce del confronto tra le posizioni dell’Ufficio e quelle del contribuente, che in tal modo ha la possibilità di rimarcare le peculiarità della propria situazione economico reddituale, … è necessario che lo stesso si svolga in via preventiva, poiché è la stessa legittimità dell’accertamento che presuppone che sia data al contribuente la possibilità di dedurre in ordine alla effettiva idoneità degli studi a giustificare la maggiore pretesa impositiva”.
L’ordinanza n. 23729/2022, tuttavia, non convince laddove la Suprema Corte, nel rimanere ancorata alla propria granitica giurisprudenza, esclude che negli accertamenti “a tavolino” sussista l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale anche rispetto ai tributi “non armonizzati”, come nel caso di specie l’IRPEF e l’IRAP.
Ancora una volta non si è tenuto in considerazione che tale “doppio binario” tra tributi “armonizzati” e “non armonizzati”, rispetto alla garanzia del contraddittorio endoprocedimentale, crea una “discriminazione a rovescio” dei contribuenti, della cui legittimità costituzionale, per violazione del principio di eguaglianza sancito nell'art. 3 co. 1 della Costituzione, dovrebbe seriamente dubitarsi alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale che, in varie pronunce, ha riconosciuto esplicitamente (sentenze nn. 443/1997, 341/2007 e 47/2018) e implicitamente (sentenza nn. 61/1996 e 251/2015) che le "discriminazioni a rovescio" sono situazioni giuridiche rilevanti nel diritto costituzionale italiano e che le medesime, laddove effettivamente sussistenti, si pongono in contrasto con il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 co. 1 della Costituzione.
Articolo a cura di Luca Procopio e Roberto Bianchi
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