Svolgere l’attività lavorativa in smart working da uno Stato straniero potrebbe facilmente determinare delle variazioni in termini di potestà impositiva, tenuto conto di quanto previsto dal Modello Convenzionale OCSE in merito alle regole sulla residenza fiscale. È pertanto sempre necessario analizzare, caso per caso, il trattato di riferimento.
Oltre a ciò, in materia di lavoro si applica di norma il principio della “lex loci laboris”, cosa che comporta:
- per l’azienda senza base fissa estera la nomina di un rappresentante previdenziale locale per svolgere gli adempimenti ivi richiesti;
- per il dipendente la verifica delle disposizioni di carattere previdenziale, le quali mutano in funzione del Paese interessato e dell’eventuale presenza (o meno) di una convenzione siglata con l’Italia.
Questo articolo è un estratto della circolare del Giorno 227 del 30 agosto 2022 Dipendenti italiani in smart working dall'estero disponibile anche nell'abbonamento alla circolare del giorno di Fiscoetasse Dello stesso autore segnaliamo l'e-book Il regime fiscale degli impatriati (e-book 2022) |
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1) Smart working estero: premessa
La pandemia legata al COVID ha portato importanti modifiche connesse alle modalità tipiche di svolgimento dell’attività lavorativa, con un improvviso ricorso pressoché generalizzato a forme di telelavoro, lavoro agile, smart working, etc. Tali tipologie operative, peraltro già esistenti ma in pratica scarsamente utilizzate in epoca pre-COVID, hanno assunto oggigiorno proporzioni davvero significative, anche a seguito delle semplificazioni burocratiche previste dalla legislazione emergenziale.
Come noto, la normativa – sia fiscale che previdenziale – è direttamente condizionata dal luogo effettivo nel quale viene svolta la prestazione lavorativa, oltre che ovviamente dalla residenza fiscale dei soggetti interessati. È pertanto diventato imperativo verificare attentamente nel dettaglio l’impiego in smart working della manodopera, al fine di gestire in maniera corretta queste situazioni.
Abbiamo già avuto modo, in precedenti occasioni, di trattare l’argomento concernente i redditi “italiani” di soggetti stranieri e, per contro, quelli “stranieri” di soggetti italiani, in funzione del rispettivo sostituto d’imposta (si vedano le CDG n. 127 del 10.06.2021, n. 186 del 13.09.2021 e n. 285 del 16.12.2021). Nel presente contributo intendiamo, invece, andare ad analizzare quei casi (in continua crescita) concernenti i dipendenti italiani di aziende nazionali prive di stabile organizzazione nei Paesi stranieri, che, svolgendo abitualmente l’attività lavorativa in smart working, decidono di continuare con tale modalità operativa, trasferendosi però fisicamente in una nazione estera, alla luce delle conseguenze che ne possono scaturire con riferimento alla variazione della residenza fiscale.
Questo articolo è un estratto della circolare del Giorno 227 del 30 agosto 2022 Dipendenti italiani in smart working dall'estero disponibile anche nell'abbonamento alla circolare del giorno di Fiscoetasse Dello stesso autore segnaliamo l'e-book Il regime fiscale degli impatriati (e-book 2022) |
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2) Normativa fiscale dello smart working estero 2022
In ottica tributaria, avendo a che fare con contribuenti nazionali fiscalmente residenti in Italia fino al giorno prima del loro trasferimento all’estero, è necessario preliminarmente accertare se:
- tali soggetti non abbiano più effettivamente mantenuto il proprio status di residenti italiani anche dopo il predetto trasferimento[1], ovvero
- se persistano in Italia delle situazioni tali da far comunque configurare la nuova residenza straniera come fittizia, nonostante – in ipotesi – l’avvenuta iscrizione all’AIRE.
Altra disposizione nazionale degna di interesse in questa sede risulterà quella che detta i principi di territorialità in merito alle differenti tipologie di reddito[2], prevedendo, per il lavoro dipendente, che i predetti redditi si considerano prodotti in Italia se l’attività è svolta in Italia.
Dopo di che, la nostra verifica dovrà ovviamente passare attraverso l’esame della Convenzione contro le doppie imposizioni di specifico riferimento eventualmente in vigore.
Prima di affrontare il tema della residenza fiscale (per le persone fisiche) secondo il citato art. 2 del TUIR, giova allora richiamare alcuni precetti basilari che troppo spesso si danno invece per scontati.
[1] sulla base dell’art. 2 del TUIR.
[2] art. 23 del TUIR.
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3) Residenza e cittadinanza: differenze
Innanzitutto, è bene ricordare che il concetto di residenza si differenzia da quello di cittadinanza / nazionalità: la prima esprime la relazione tra una persona e uno Stato; la seconda concerne piuttosto l’appartenenza a un determinato gruppo sociale. Ritroviamo la definizione di “residenza” nell’art. 4 del Modello Convenzionale OCSE. In genere, i residenti saranno tassati in base al c.d. “Worldwide Taxation Principle”; i non-residenti, viceversa, esclusivamente su base territoriale.
Con il termine “residente”, l’anzidetto art. 4 intende quei soggetti che saranno tassati in base a quanto disciplinato dalle leggi tributarie vigenti nello Stato di riferimento in relazione al proprio domicilio / residenza. I criteri adottati per stabilire la residenza sono, nell’ordine:
- l’abitazione permanente;
- il domicilio (inteso come centro d’affari e di interessi economici e personali);
- la dimora abituale;
- la cittadinanza.
Per quanto concerne l’Italia, l’art. 2 del TUIR dispone che, ai fini delle imposte sui redditi, si considerano residenti le persone fisiche che, per la maggior parte del periodo d’imposta:
- sono iscritte alle anagrafi delle popolazioni residenti;
- hanno nel territorio dello Stato il domicilio[1];
- hanno nel territorio dello Stato la residenza[2].
Tali requisiti non devono coesistere contemporaneamente, essendo sufficiente che se ne verifichi anche soltanto uno.
[1] ex art. 43, Codice civile.
[2] sempre, ex art. 43, Codice civile.
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4) Regole per lavoro e previdenza nel caso di smart working estero
In ottica giuslavorista e previdenziale, il principio di fondo che detta le norme è fondamentalmente lo stesso visto in materia fiscale (“Lex Loci Laboris”), vale a dire, la legge del luogo di svolgimento del lavoro. Questo comporta la necessità di riconsiderare il contratto di lavoro “italiano” tramite il quale era stato originariamente assunto il dipendente, dimodoché, detto contratto (tranne rare eccezioni):
- preveda delle retribuzioni almeno pari a quelle stabilite nel Paese estero per analoghe posizioni lavorative, fermo restando che se gli stipendi locali sono inferiori a quelli italiani, il dipendente manterrà un salario comunque non inferiore a quello stabilito dal CCNL italiano;
- garantisca altresì gli altri eventuali istituti contrattuali come applicati agli “analoghi” dipendenti locali;
- garantisca la contribuzione previdenziale e assicurativa locale;
- sia soggetto alla competenza giurisdizionale locale[1], e dunque in linea con quanto stabilito dai contratti di lavoro locali adottabili.
[1] di norma, infatti, una persona che esercita un'attività subordinata in uno Stato è soggetta alla legislazione di tale Stato.
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5) Smart working dall'estero
Prima di approfondire questi aspetti, giova ribadire nuovamente il particolare caso qui oggetto di analisi, al fine di non confondersi tra le variegate possibili fattispecie:
Dipendente italiano di azienda nazionale, il quale si è trasferito all’estero acquisendo la residenza fiscale del luogo, e svolge abitualmente l’attività lavorativa in smart working dallo Stato straniero, nel quale l’azienda datrice di lavoro non possiede alcuna sede, né stabile organizzazione, né ufficio di rappresentanza, né altra base fissa |
A differenza, dunque, della maggioranza delle situazioni che siamo soliti incontrare, in questo caso non abbiamo a che fare con gli istituti tipici (distacco, trasferimento, trasferta), trattandosi invece di un ordinario rapporto di lavoro svolto all’estero – a opera di un dipendente ivi residente – senza però che esista un’unità operativa dell’azienda datrice di lavoro nello Stato estero in questione.
Ebbene, la regola di base è sempre la stessa: un datore di lavoro, la cui sede legale o il cui domicilio si trova al di fuori dello Stato estero di competenza, deve comunque adempiere a tutti gli obblighi previsti dalla locale legislazione applicabile al suo dipendente ivi residente e ivi svolgente la propria attività lavorativa, come se la sede legale o il domicilio del predetto datore di lavoro fossero situati nello Stato estero di competenza.
Quindi, per adempiere a tali obblighi, il datore di lavoro italiano dovrà necessariamente nominare un proprio rappresentante previdenziale in loco, il quale sarà deputato a eseguire gli adempimenti richiesti dalla legislazione giuslavorista e previdenziale del Paese straniero. Nella prassi, in questi casi il datore di lavoro suole nominare come proprio rappresentante previdenziale il dipendente stesso, il quale, a sua volta, si farà assistere da un commercialista del posto per effettuare ogni adempimento previsto dalla normativa in vigore, tenere i libri, i registri, le buste paga, i documenti contrattuali e, ovviamente, predisporre tutti i correlati versamenti (che potranno essere effettuati dal datore di lavoro italiano, senza bisogno di recarsi fisicamente presso lo Stato straniero).
Occorre inoltre tenere presente che, contemporaneamente all’apertura della posizione lavorativa e previdenziale estera, viene a cessare quella corrente in Italia relativa al dipendente interessato.
Quel che, peraltro, appare elemento meritevole di specifico approfondito esame è la situazione previdenziale del lavoratore, precedentemente assunto in Italia (con contribuzione INPS), e successivamente soggetto ai contributi del Paese estero in cui si è trasferito e in cui lavora.