Al fine di inquadrare correttamente gli obblighi dichiarativi dei marittimi, occorre sempre valutare, sulla base della specifica convenzione applicabile e della legislazione domestica: la sede della direzione effettiva dell’armatore, lo Stato di bandiera della nave e la residenza fiscale dei beneficiari. Il tutto tenendo conto che, in genere, trattasi di tre differenti nazioni, per cui non è sempre agevole accertare quale trattato bilaterale debba essere applicato. Per contro, analizzando attentamente la normativa nazionale e internazionale, non è improbabile avere a che fare con legittime fattispecie di “doppia non-imponibilità” del reddito.
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1) Premessa
I marittimi in servizio su navi in traffico internazionale rappresentano una categoria particolare di dipendenti che – per definizione stessa – svolge la prestazione all’estero. Rispetto però agli altri lavoratori dipendenti che operano fuori Italia, nel caso dei marittimi sorgono non pochi problemi in merito alla difficoltà di individuare la nazione straniera presso la quale il lavoro si deve considerare eseguito e quella che ha il diritto di tassare i redditi.
La Convenzione Internazionale sul Lavoro Marittimo (ILO – MLC, 2006), ratificata in Italia, con Legge 113/2013, seppure relativa agli aspetti giuslavoristici, fornisce alcuni importanti parametri di base utili per sviluppare la successiva analisi concernente l’argomento tributario di interesse in questa sede:
- “Nave” indica ogni unità che non navighi esclusivamente nelle acque interne o in acque situate all’interno o in prossimità di acque riparate o in aree dove si applica un regolamento portuale; ogni nave può, conformemente al diritto internazionale, essere soggetta a ispezione da parte di uno Stato membro diverso da quello dello Stato di bandiera, quando si trova in uno dei suoi porti
- “Armatore” designa il proprietario della nave od ogni altra organizzazione o persona, quale il gestore, l’agente o il noleggiatore a scafo nudo, al quale il proprietario ha dato la responsabilità dell’utilizzo della nave
- Salvo disposizioni contrarie espresse, la convenzione si applica a tutti i marittimi; in caso di dubbio circa l’appartenenza di una categoria di persone alla “gente di mare”, la questione è decisa dall’autorità competente di ogni Stato membro previa consultazione con le organizzazioni degli armatori e dei marittimi interessati
Ciò premesso, in ottica strettamente italiana, il D.lgs. 71/2015 identifica il lavoratore marittimo come ogni persona che:
- Svolge, a qualsiasi titolo, servizio o attività lavorativa a bordo di una nave
- Ha ricevuto una formazione
- È in possesso di un certificato di competenza o di un certificato di addestramento o di altra prova documentale
Per quanto, invece, concerne la definizione di “nave”, il Codice della navigazione (articolo 134) parla di qualsiasi costruzione destinata al trasporto per acqua, anche a scopo di rimorchio, di pesca, di diporto, o ad altro scopo. Sempre secondo lo stesso codice, le navi italiane (ossia, quelle iscritte al registro navale del nostro Paese) che si trovano in alto mare, in luogo o spazio non soggetto a sovranità di altro Stato straniero, sono considerate come territorio italiano. Pertanto, trovarsi a bordo di tali imbarcazioni (anche se in navigazione) equivale a trovarsi nel territorio dello Stato. D’altronde, il territorio di una nave corrisponde allo Stato di bandiera della medesima. Occorre peraltro riconoscere che, se la ratio della norma è quella di colpire in maniera equa i redditi nelle nazioni di competenza (e in capo ai reali beneficiari), identificare il Paese di svolgimento del lavoro semplicemente riferendosi allo Stato di bandiera della nave, non dovrebbe avere ragion d’essere, poiché una nave viene iscritta nel registro navale di uno Stato piuttosto che in quello di un altro, esclusivamente per valutazioni di convenienza da parte dell’armatore, che nessun tipo di nesso presentano con la nazionalità o la residenza del medesimo, né tanto meno con i porti di approdo o l’area di operatività effettiva dell’imbarcazione.
A tale ultimo riguardo, giova ricordare che, con riferimento all’ordinamento tributario nazionale, di regola, coloro che sono fiscalmente residenti in Italia vengono tassati secondo il principio della tassazione mondiale su tutti i redditi ovunque prodotti, fatto salvo il credito per le imposte eventualmente già versate a titolo definitivo all’estero. Peraltro, come noto, occorre vagliare la normativa nazionale di concerto con le previsioni delle convenzioni internazionali, ricordando che la gerarchia delle leggi prevede il seguente ordine prioritario:
- La Costituzione
- La normativa comunitaria
- I trattati internazionali ratificati in Italia
- La legislazione domestica
Appare infine importante sottolineare che, ogni qual volta si parla di “marittimi italiani”, non si intende differenziare i dipendenti locali da quelli stranieri in base alla loro residenza, ma ci si riferisce semplicemente a tutti quei lavoratori (anche di altri Paesi) che sono imbarcati su navi italiane in traffico internazionale. Cerchiamo allora di comprendere meglio cosa si intende per nave in traffico internazionale, nonché più in generale analizzare la norma convenzionale in tutte quelle parti che concernono l’argomento qui oggetto di verifica.
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2) Norma convenzionale, legislazione domestica e differenze nei trattati
Gli articoli del modello convenzionale OCSE relativi ai marittimi e conseguentemente agli armatori sono i seguenti:
- Articolo 3 – Definizioni generali
- Articolo 8 – Navigazione marittima e aerea
- Articolo 15 – Lavoro subordinato
Tra le varie definizioni generali indicate dall’articolo 3, troviamo anche quella concernente il c. d. “traffico internazionale”, che viene esplicitato come:
“Qualsiasi attività di trasporto effettuata per mezzo di una nave o di un aeromobile da parte di un'impresa la cui sede di direzione effettiva è situata in uno Stato contraente, a eccezione del caso in cui la nave o l'aeromobile sia utilizzato esclusivamente tra località situate nell'altro Stato contraente”.
Dunque, riprendendo quanto appena evidenziato in premessa: una SPA italiana costituisce una PRIVATE LTD in Irlanda; la LTD acquista una nave e la iscrive presso il registro navale italiano; la nave è di stanza a Napoli, dove assume dei marittimi locali; detta nave fa la spola ogni mese tra Napoli e Genova, tranne ad agosto, periodo in cui effettua la tratta Napoli – Barcellona. Ebbene, se il place of effective management della LTD è realmente localizzato in Irlanda, tale nave è considerata in traffico internazionale.
Il successivo articolo 8 del modello convenzionale stabilisce al paragrafo 1 che:
“Gli utili derivanti dall'esercizio, in traffico internazionale, di navi o di aeromobili sono imponibili soltanto nello Stato contraente in cui è situata la sede della direzione effettiva dell'impresa”.
Nel nostro caso, quindi, abbiamo la tassazione sugli utili prodotti esclusivamente in Irlanda; in Italia non andrà dichiarato alcun reddito. Non solo: l’armatore italiano consegue un doppio vantaggio fiscale. La LTD sconta un’imposta locale pari al 12,5%, molto più bassa di quella che pagherebbe in Italia, ma comunque non inferiore al 50% dell’IRES (come richiesto dalla normativa CFC, al fine di individuare i Paesi a fiscalità privilegiata). Dopo di che, la controllata LTD distribuisce i dividendi alla controllante SPA, la quale non verserà alcuna imposta, potendo beneficiare dell’esenzione stabilita dalla direttiva “madre/figlia”, atteso che il benficial owner (beneficiario effettivo) è comunitario [classico esempio di pianificazione fiscale].
Sempre lo stesso articolo 8 del modello OCSE, ma al paragrafo 2, prevede che:
“Se la sede della direzione effettiva dell'impresa di navigazione marittima è situata a bordo di una nave, detta sede si considera situata nello Stato contraente in cui si trova il porto d'immatricolazione della nave, oppure, in mancanza di un porto di immatricolazione, nello Stato contraente di cui è residente l'esercente la nave”.
Questa disposizione spiega perché Stati come la Svizzera o il Lussemburgo (particolarmente appetibili da un punto di vista fiscale), vantino un registro navale nazionale nel quale risulta iscritto un numero assai rilevante di navi, nonostante l’assenza di mare (e di porti) in tali Paesi.
Chiusa questa breve parentesi fiscale sugli armatori, necessariamente prodromica al corretto inquadramento dei marittimi (viceversa oggetto della presente trattazione), arriviamo all’articolo 15 del modello standard OCSE, che disciplina il lavoro dipendente, incluso quello svolto dai marittimi al paragrafo 3:
“Nonostante le disposizioni precedenti del presente articolo, le remunerazioni relative al lavoro subordinato svolto a bordo di navi o di aeromobili utilizzati in traffico internazionale sono imponibili nello Stato contraente nel quale è situata la sede della direzione effettiva dell'impresa”.
Ergo, la disposizione prevede una tassazione concorrente in entrambi gli Stati (nel caso indicato, Irlanda e Italia), posto che non è precisata la potestà impositiva esclusiva: manca il famigerato avverbio “soltanto”. In proposito è necessario svolgere una serie di considerazioni.
Un primo elemento da valutare concerne il fatto che, a differenza di quanto stabilito per gli altri lavoratori dipendenti, nel caso dei marittimi la norma convenzionale non fa alcun riferimento al noto parametro dei 183 giorni onde stabilire l’eventuale tassazione. In considerazione, infatti, della peculiarità dell’attività, la disposizione non stabilisce alcun periodo minimo per i marittimi. D’altronde, detta previsione appare del tutto coerente con quanto indicato sempre nel modello convenzionale (articolo 8), riguardo al reddito delle imprese di navigazione, le quali sono tassate esclusivamente nello Stato contraente nel quale è situato il luogo di effettiva direzione dell’azienda. Inoltre, persino il commentario all’articolo 15, ultimo comma, del modello OCSE, riferendosi alle imbarcazioni in traffico internazionale, sostanzialmente riserva agli Stati contraenti la facoltà di attribuire la potestà impositiva sempre nella nazione in cui è situata la sede di direzione effettiva dell’impresa, sia per il reddito delle società proprietarie che per i proventi erogati ai loro equipaggi.
Ciononostante, l’anzidetto parametro viene, viceversa, preso in considerazione dalla nostra legislazione. Pertanto, in tutti i casi in cui la convenzione stabilisca la tassazione in Italia, ovvero, laddove proprio non esista una convenzione (esempio: Bermuda, Bahamas, etc.), diventa necessario valutare la norma nazionale di riferimento.
Il comma 8-bis dell’articolo 51 del TUIR, dispone:
“In deroga alle disposizioni dei commi da 1 a 8, il reddito di lavoro dipendente, prestato all'estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell'arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale”.
Le retribuzioni convenzionali si applicano al verificarsi delle seguenti condizioni:
- Il lavoratore dipendente è fiscalmente residente in Italia
- Il lavoro dipendente svolto all’estero in via continuativa è equiparabile a uno dei profili individuati nel citato decreto ministeriale sulle retribuzioni convenzionali
- Il lavoro è l’oggetto esclusivo del rapporto
- Il lavoro è stato svolto all’estero per un periodo superiore a 183 giorni anche non consecutivi, nell’arco di dodici mesi (dunque, non necessariamente all’interno del medesimo anno solare)
Laddove non si verifichino le suddette condizioni, non si potranno applicare le retribuzioni convenzionali e il reddito verrà tassato in base alla retribuzione complessiva effettivamente percepita (al netto degli oneri previdenziali), fatta naturalmente salva l’applicazione delle detrazioni di legge per lavoro dipendente previste dall’ordinamento tributario italiano. Orbene, anche in quest’ottica i marittimi rilevano come eccezione alla regola.
L’articolo 5 del decreto legge 317/1987 ha stabilito che le disposizioni concernenti i lavoratori italiani all’estero (inclusa l’adozione delle retribuzioni convenzionali) non si applicano ai lavoratori marittimi italiani imbarcati su navi battenti bandiera estera. A evitare qualsiasi differente interpretazione di questa disposizione è poi intervenuta la legge 16 marzo 2001, n. 88 (Nuove disposizioni in materia di investimenti nelle imprese marittime), la quale ha fornito la seguente interpretazione autentica:
“Il comma 8-bis dell'articolo 48 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, introdotto dall'articolo 36, comma 1, della legge 21 novembre 2000, n. 342, deve interpretarsi nel senso che per i lavoratori marittimi italiani imbarcati su navi battenti bandiera estera, per i quali, ai sensi dell'articolo 4, comma 1, e dell'articolo 5, comma 3, del decreto legge 31 luglio 1987, n. 317, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 1987, n. 398, non è applicabile il calcolo sulla base della retribuzione convenzionale, continua a essere escluso dalla base imponibile fiscale il reddito derivante dall'attività prestata su tali navi per un periodo superiore a 183 giorni nell'arco di dodici mesi.
Dunque, per quanto concerne la categoria dei marittimi che svolgono lavoro dipendente a bordo di navi battenti bandiera straniera non sono in alcun caso applicabili le retribuzioni convenzionali. In realtà, quanto ribadito dall’appena richiamata norma di interpretazione autentica appare persino superfluo, atteso che, non esistendo un profilo equipollente a quello dei marittimi nel decreto ministeriale che determina annualmente le retribuzioni convenzionali, perlomeno a parere di chi scrive, era già ovvio che dette retribuzioni non si sarebbero comunque potute applicare al caso de quo. Inoltre, il legislatore nazionale pone l’accento esclusivamente sulla circostanza che l’attività sia prestata a bordo di navi battenti bandiera straniera. Non viene data alcuna rilevanza a elementi che, viceversa, sono di regola fondamentali ai fini della tassazione delle altre tipologie di reddito da lavoro dipendente prodotto all’estero, quali: la residenza del datore di lavoro; quella del dipendente; il luogo geografico di svolgimento effettivo della prestazione lavorativa (e, dunque: la posizione della nave, la sua navigazione nelle tratte interne o internazionali – la norma omette anche la precisazione: “traffico internazionale”).
Riassumendo, con espresso riferimento a quei lavoratori marittimi italiani che prestano servizio a bordo di navi battenti bandiera straniera, possiamo trovarci di fronte alle seguenti due fattispecie:
- Il marittimo è rimasto imbarcato per un periodo superiore a 183 giorni, nell’arco di dodici mesi.
Apriamo una breve parentesi solo per ricordare che, in merito al periodo in questione, la circolare 207/2000 dell’Agenzia delle Entrate ha chiarito che, per quanto concerne il computo dei giorni di effettiva permanenza del lavoratore all’estero, il periodo da considerare non necessariamente deve risultare continuativo: è sufficiente che il lavoratore presti la propria opera all’estero per più di 183 giorni nell’arco di dodici mesi. Appare opportuno precisare che il Legislatore, con l’espressione “nell’arco di dodici mesi”, non ha inteso fare riferimento al periodo d’imposta, ma alla permanenza del lavoratore all’estero stabilita nello specifico contratto di lavoro, che può anche prevedere un periodo “a cavallo” di due anni solari. Per l’effettivo conteggio dei giorni di permanenza del lavoratore all’estero, in ogni caso, rilevano nel computo del limite dei 183 giorni, il periodo di ferie, le festività, i riposi settimanali e gli altri giorni non lavorativi, indipendentemente dal luogo in cui sono trascorsi (anche si trattasse del proprio domicilio/residenza).
- Il marittimo è rimasto imbarcato per un periodo (uguale o) inferiore a 183 giorni, nell’arco di dodici mesi.
Ebbene, nell’ipotesi A) interviene la norma interna di interpretazione autentica più sopra richiamata. Pertanto, anche se il marittimo è fiscalmente residente in Italia (esempio, in quanto non iscritto all’AIRE), i redditi prodotti come dipendente a bordo delle navi battenti bandiera estera non assumono rilevanza nei confronti del Fisco italiano: niente obbligo dichiarativo, né pagamento delle imposte (nemmeno in base al principio della tassazione mondiale).
Nel caso B) si giunge di fatto alla medesima conclusione sulla base della prevalente norma convenzionale soltanto laddove tale disposizione preveda una tassazione esclusiva nell’altro Paese contraente. Viceversa, laddove il trattato preveda una tassazione concorrente di entrambi gli Stati, al marittimo resta preclusa l’applicazione della norma domestica di interpretazione autentica e dunque dovrà dichiarare in Italia tutti i redditi effettivamente percepiti a bordo delle navi – pure se battenti bandiera estera – nonché versare le correlate imposte, in forza del worldwide principle taxation (senza poter applicare le retribuzioni convenzionali).
A fronte di questo aspetto negativo che comporta un’imposizione – spesso inaspettata – su tutte le somme percepite, vi è però anche il rovescio della medaglia: vale a dire il verificarsi di ipotesi di c. d. “doppia non-imposizione”.
Come abbiamo più volte avuto modo di scrivere, le convenzioni non sono tutte uguali: a volte ci sono delle differenze. Relativamente, in particolare, alla fattispecie che ci occupa, per esempio, nella convenzione in essere con Hong Kong o anche con gli Emirati Arabi Uniti, la disposizione in parola presenta un testo differente:
“Nonostante le disposizioni precedenti del presente articolo, le remunerazioni relative al lavoro subordinato svolto a bordo di navi o di aeromobili utilizzati in traffico internazionale sono imponibili soltanto nello Stato contraente nel quale è situata la sede della direzione effettiva dell'impresa”.
Dunque, tassazione solo nel Paese estero. Senonché, a Hong Kong e negli EAU, di fatto non esiste tassazione. Per cui, questi marittimi non saranno tassati, né in Italia e né all’estero.
Ma questa non è l’unica ipotesi di “doppia non-imposizione”. Nel caso in cui non esista una convenzione contro le doppie imposizioni (esempio, Bermuda), si applica esclusivamente la legislazione domestica. Abbiamo, però, appena visto che, se il marittimo è rimasto imbarcato per un periodo superiore a 183 giorni, nell’arco di dodici mesi, su navi battenti bandiera estera, il reddito ricevuto al riguardo è escluso dalla base imponibile fiscale. Pertanto, pure al ricorrere di quest’ipotesi il marittimo resterà privo di tassazione, non essendo prevista una sua tassazione alle Bermuda.
Entrambe le predette fattispecie di “doppia non-imposizione”, peraltro, sono assolutamente legittime sulla base della normativa in vigore e, al momento, esenti da contestazioni da parte dell’Agenzia delle entrate, salvo specifico ulteriore intervento del legislatore nazionale (o, a nostro avviso, della Consulta, considerato che parrebbero rilevarsi chiari profili di incostituzionalità con riferimento agli articoli 3 e 53 della Costituzione – uguaglianza e capacità contributiva).
Per comprendere al meglio l'applicazione della normativa ti consigliamo di leggere quest'altro approfondimento che riporta esclusivamente casi concreti di applicazione delle discipline fin qui esposte: Esempi di triangolazione per la tassazione dei lavoratori marittimi
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3) Conclusioni
In conclusione appare evidente che l’attuale normativa domestica concernente gli utili delle società armatoriali e/o il reddito dei lavoratori marittimi che prestano servizio a bordo di navi battenti bandiera straniera, appaia particolarmente lacunosa e necessiti di opportuni interventi correttivi da parte del legislatore.
Ciononostante, il nostro compito di consulenti è quello di fornire ai nostri clienti (siano essi gli armatori o i loro marittimi) quelle soluzioni operative che risultino essere per loro fiscalmente meno onerose e più convenienti.
Pertanto, fintantoché le normative nazionali e internazionali resteranno invariate, il nostro dovere professionale ci imporrà di suggerire – laddove possibile con riferimento al singolo caso – l’organizzazione di framework che, pur essendo assolutamente legittimi e ossequiosi delle disposizioni vigenti, pervengano al raggiungimento degli obiettivi auspicati dai clienti.
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