La risposta n. 643 del 31 dicembre 2020 dà ancora una volta conferma di una visione, da parte dell’Agenzia delle entrate, in linea con la concezione dell’abuso del diritto propria dell’articolo 10-bis della legge 212/2000, Statuto dei diritti del contribuente.
La disciplina, introdotta da più di cinque anni, si sta consolidando nella sua applicazione, superando definitivamente l’idea, presente nelle contestazioni dell’Amministrazione finanziaria e nella giurisprudenza, più che nel testo normativo del previgente art. 37-bis del d.p.r. 600/73, secondo cui ogni risparmio fiscale non accompagnato da valide ragioni economiche costituisse abuso del diritto. Oggi, come la risposta che qui esamineremo dimostra, al centro c’è la natura del vantaggio fiscale conseguito: se questo è indebito, ossia ottenuto contravvenendo alla ratio delle norme di cui ci si avvale, ci può essere abuso del diritto, ma in caso contrario l’abuso è assolutamente da escludere, e non serve dimostrare l’esistenza di valide ragioni economiche o extrafiscali dietro l’operazione posta in essere.
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1) Il caso oggetto di interpello
Alla luce di quanto detto, nella fattispecie oggetto della risposta n. 643/2020, l’Agenzia delle entrate non ha difficoltà a dare il via libera all’operazione. Il caso è questo: la società Alfa ha già acquistato l’unica azienda della Beta, sua controllata al 100%, cosicché quest’ultima è rimasta inattiva e dovrebbe essere messa in liquidazione; sennonché, la Beta ha in pancia un credito d’imposta derivante da costi sostenuti per attività di ricerca e sviluppo (art.1, comma 282, l. 296/2006), oltretutto piuttosto datato e maturato in capo alla società Gamma, in passato incorporata proprio dalla Beta.
Il credito d’imposta per ricerca e sviluppo, come gli altri crediti d’imposta di natura agevolativa, può essere trasferito da una società all’altra solo nell’ambito di operazioni straordinarie, come la fusione o la scissione, o al limite il conferimento o la cessione di azienda; non può essere, invece, venduto separatamente, perché non è un bene autonomo, ma un diritto che, come rimarca l’Agenzia delle entrate da ultimo nella risposta ad interpello n.72/2019, matura “esclusivamente in capo ai soggetti che effettuano l’investimento [in ricerca e sviluppo]”. La Beta, titolare del credito per ricerca e sviluppo, lo aveva però in precedenza escluso dalla vendita della propria unica azienda alla Alfa, in quanto estraneo al compendio aziendale e dunque non trasferibile (la Beta non è una società che fa ricerca, ed infatti aveva ereditato il credito dalla Gamma avendola incorporata).
Ciò premesso, la preoccupazione dell’istante Alfa è che una fusione con una società vuota possa far nascere la contestazione di abuso del diritto a causa di un utilizzo di questa operazione straordinaria, impiegata con l’unico scopo di trasferire un singolo bene, contrario alla sua ratio di operazione di riorganizzazione aziendale.
2) La risposta dell’Agenzia delle entrate
La questione è interessante, anche se la risposta favorevole al contribuente, alla luce dei principi dell’ordinamento tributario, poteva apparire scontata. In passato, c’erano state pronunce che avevano rilevato l’utilizzo elusivo della fusione o della scissione solo perché le società coinvolte non possedevano aziende, o comunque non erano società attive con le quali attraverso la fusione si potesse sviluppare una qualche integrazione produttiva. Ad esempio, nella risoluzione n.62/E del 28 febbraio 2002, l’Agenzia delle entrate ha ritenuto elusiva una fusione con una società in liquidazione poiché finalizzata solo a “risparmiare gli oneri del gruppo aziendale” e “consolidare le risorse finanziarie necessarie nella fase liquidatoria”, e non invece a “giungere alla crescita delle dimensioni dell’impresa ed alle conseguenti economie di scala”.
Che la fusione debba essere utilizzata solo per ottenere economie di scala, crescita dimensionale, o simili, però, non è un principio del nostro ordinamento, per cui un suo impiego che non raggiunga questi scopi non può essere considerato contrario alla sua ratio ed elusivo.
Proprio l’impiego della fusione, del resto, è illustrato e portato ad esempio di legittimo risparmio d’imposta nella relazione allo schema di decreto legislativo che ha introdotto l’attuale disciplina anti-abuso, in cui si legge che “non è possibile configurare una condotta abusiva laddove il contribuente scelga, per dar luogo all’estinzione di una società, di procedere a una fusione anziché alla liquidazione”, perché “nessuna disposizione tributaria mostra preferenza per l’una o per l’altra operazione”.
È chiaro, allora, che la fusione può essere utilizzata per la chiusura di una società, anche semplicemente in alternativa alla liquidazione, ed è un’opzione legittimamente a disposizione del contribuente anche se non finalizzata alla crescita dimensionale ed all’aggregazione di compendi aziendali.
3) La circolazione dei crediti d’imposta di natura agevolativa
Per questo il via libera da parte dell’Agenzia delle entrate si poteva dare per scontato. Tuttavia, forse qualche riflessione in più può essere fatta, con riferimento al caso specifico, non tanto nel confronto tra fusione e liquidazione o nel modo in cui è utilizzata la fusione, quanto con riferimento alla circolazione del credito d’imposta per costi di ricerca e sviluppo.
Evidentemente, infatti, la preoccupazione dell’istante nasceva dal fatto che la fusione si sarebbe risolta in un trasferimento del solo credito d’imposta, il che è di per sé un effetto non voluto dal sistema. Neppure sarà sfuggita all’istante una certa affinità tra la situazione oggetto dell’interpello e la fusione effettuata con società che apportano solo perdite fiscali, trattandosi anche in quel caso di un’operazione straordinaria finalizzata a far godere una società di una posizione soggettiva di vantaggio maturata in capo ad un’altra società.
L’analogia, però, non può essere portata avanti tra le due situazioni, poiché il credito d’imposta è un’agevolazione che lo Stato concede per incentivare una certo tipo di spesa (nello specifico ricerca e sviluppo) che non può essere venduta ma può essere “ereditata”. In relazione alle società con perdite fiscali, invece, non si è davanti ad un diritto a godere di un beneficio, né tanto meno ad un incentivo statale, ma solo ad un meccanismo, la compensazione con gli utili futuri, che ha lo scopo di evitare che il medesimo soggetto che ha subito delle perdite si trovi a pagare imposte sugli utili di un periodo d’imposta che non trovano corrispondenza in un complessivo guadagno dell’attività, nel rispetto del principio costituzionale di capacità contributiva. Qui la regola è diversa, perché il trasferimento è tendenzialmente vietato anche nell’ambito delle operazioni straordinarie come la fusione, a meno che non sia marginale all’operazione stessa, il che come è noto è prestabilito da rigidi parametri normativi (art. 172, comma 7, del d.p.r. 917/86).
Certamente, con la liquidazione della Beta il credito d’imposta per ricerca e sviluppo sarebbe andato perso, perché non ne sarebbe stato ammesso il trasferimento (ci sarebbe stata la stessa preclusione che in caso di cessione del credito). Ma questo confronto è irrilevante, perché ciò che conta è solo che la fusione può essere legittimamente impiegata per unire due soggetti ed integrare anche le loro posizioni soggettive, senza che ciò possa essere contestato per il solo motivo che un certo effetto non possa essere conseguito diversamente. A condizione, ovviamente, che non vi sia un principio specifico dell’ordinamento, come nel caso delle perdite fiscali, che lo vieti.