Il decreto legge numero 23 dell’8 aprile 2020 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale numero 94, mi ha colpito per l’incipit contenuto nelle premesse: il Presidente della Repubblica visti gli articoli ….. omissis …… e ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di contenere gli effetti che l’emergenza epidemiologica Covid 19 sta producendo sul tessuto socio economico nazionale, prevedendo misure a sostegno della liquidità …. omissis …. emana il seguente decreto legge.
L’emergenza socio-economica che il paese sta vivendo è sotto gli occhi di tutti e anche la necessità di fornire soluzioni a supporto del sistema produttivo; la liquidità però è solo una piccola parte del problema.
Il decreto è stato annunciato e pubblicizzato dall’esecutivo come un decreto che stanzia risorse per centinaia di miliardi a favore delle imprese per sostenerle in questo momento di difficoltà.
Questo breve e certamente non esaustivo contributo intende fornire alcuni spunti di riflessione che esaminano il decreto sia da un punto di vista di finanza pubblica che in termini di economia aziendale.
1) Le norme sulla finanza pubblica
Non c’è dubbio, infatti, in coerenza con le norme e le prassi conseguenti al Trattato di Maastricht che dal punto di vista statistico le garanzie prestate dallo Stato su debiti di terzi non sono considerate debito pubblico fino a quando lo Stato non è chiamato ad onorarle.
A conferma di questo la legge 196 del dicembre 2009 sul bilancio dello stato, aggiornata al 2018, all’articolo 31, che tra l’altro non ha subito modifiche dal 2010, così recita: In allegato allo stato di previsione della spesa del Ministero dell'economia e delle finanze sono elencate le garanzie principali e sussidiarie prestate dallo Stato a favore di enti o altri soggetti.
Tra le altre cose Eurostat ricorda che ai fini del bilancio pubblico sono monitorati e rilevati: i dati sull'importo in essere delle garanzie concesse dalle amministrazioni pubbliche. Oggetto di notifica sono soltanto le garanzie concesse alle unità non classificate nelle amministrazioni pubbliche.
E’ noto, poi, il parere di Eurostat del 3 aprile 2018 sull’impatto degli effetti contabili dell’operazione di liquidazione delle Banche venete; in particolare, in quell’occasione Eurostat valutava il maggior impatto dello Stato, rispetto alle previsioni interne, sulle erogazioni e sulle garanzie oggetto dell’intervento. Ma è bene ricordare che in quel caso lo Stato operava come soggetto liquidatore e quindi avrebbe sopportato le perdite dell’attività. Inoltre, sul fronte delle garanzie veniva registrato un maggior aggravio di un miliardo derivante dallo sbilancio di cessione di assets assistiti dalla garanzia dello Stato, di cui si assumeva l’integrale escussione.
Quindi, le garanzie sono monitorate, ma l’impatto dipende dalla loro escussione e infine, l’articolo 1 del decreto in esame al comma primo prevede che le garanzie stimate in euro 200 miliardi sono concesse da SACE spa.
Esaurita brevemente la premessa sul perché si sia pensato di intervenire sulla crisi in atto usando lo strumento di promuovere il credito alle imprese usando garanzie statali, a causa del minor impatto sul disavanzo, piuttosto che mediante l’uso di contributi in conto spese insieme ad interventi di finanza pubblica, che invece pesano sul deficit statale, passiamo ad esaminare, seppur senza pretesa di esaustività, l’efficacia del provvedimento da un punto di vista aziendalistico.
2) L’aumento dell’indebitamento privato
Innanzitutto, anche se in modo spicciolo, dobbiamo dividere le imprese tra quelle aperte e che possono continuare ad operare e quelle che sono state oggetto dei provvedimenti di chiusura per garantire il distanziamento sociale.
Le imprese che possono operare, cioè i settori strategici ed essenziali al contenimento della pandemia e quelli generali e ausiliari, hanno potuto portare avanti il proprio business. Alcune di queste, in particolare quelle che operano con l’estero, avranno subito la contrazione degli ordini per la riduzione degli spostamenti e dei traffici internazionali, compensata forse dall’incremento degli ordini interni a causa della riduzione delle importazioni. Quelle che servono il mercato interno dovrebbero aver mantenuto invariato il proprio livello di performance economica se non addirittura, a causa delle minori importazioni, aver incrementato le vendite.
Questo primo gruppo di imprese non dovrebbe aver subito grandi contraccolpi. La perdita di vendite, se conseguita, sarà certamente assorbita dalla riduzione dei costi variabili e in parte da quella dei costi fissi, contenuti grazie all’uso della cassa integrazione per la manodopera indiretta in “esubero” rispetto all’espletamento delle attività aziendali. La riduzione delle vendite potrebbe influire sui margini economici, sull’utile e sulla liquidità ma non al punto, o comunque non sempre, da giustificare l’aumento dell’indebitamento a breve.
Il secondo gruppo di imprese, quelle chiuse per decreto, avrà sicuramente avuto un calo delle vendite di beni o di servizi nei mesi di chiusura; altre attività come ad esempio il turismo e il settore della cultura e dello spettacolo avranno una contrazione probabilmente più duratura nel tempo e più rilevante negli importi.
Queste imprese hanno un primo grande problema: il calo dei ricavi. Calo che sicuramente crea una riduzione della liquidità necessaria a coprire i costi fissi, visto che quelli variabili spariscono insieme alle vendite.
Ogni impresa dovrebbe avere una liquidità di emergenza e prima di indebitarsi potrebbe essere sensato usare parte di quella liquidità. Le imprese che non hanno liquidità di emergenza potrebbero dover ricorrere a nuova finanza. Ma piuttosto che farlo per esigenze di breve e per coprire strutture economiche inefficienti, dovute alla presenza di rilevanti costi fissi, potrebbero valutare, se sono ancora solvibili e non in situazione pre-fallimentare, di fare operazioni di consolidamento dei debiti trasformando le scadenze da breve a medio lungo termine, agendo sulla riduzione dei tassi di interesse e magari attingendo a somme contenute di nuova finanza da usare in queste settimane di blocco operativo.
Non vedo altra convenienza circa la necessità di dover far ricorso all’indebitamento a breve.
Sia il primo che il secondo gruppo di imprese potrebbe aver subito, invece, un calo degli incassi dei clienti: o per ritardi dovuti a comportamenti contrattualmente “opportunistici” dei clienti che non pagano per non erodere la propria liquidità, oppure per reali difficoltà di pagare a causa del blocco dell’attività degli stessi.
Contro il primo problema occorre tutelarsi legalmente: un cliente che resta aperto e che sta svolgendo la sua attività in modo normale non dovrebbe ritardare i pagamenti ai suoi fornitori e se lo fa deve essere diffidato legalmente. Ricordando che ogni operatore economico dovrebbe, in special modo in situazioni come quella attuale, mantenere comportamenti economici responsabili.
Per risolvere il problema dei clienti che non stanno pagando e che sono solidi e pagheranno appena avranno ripreso le proprie attività, si può valutare di attivare linee di credito a breve termine. Linee di credito autoliquidanti che saranno rimborsati appena si riattivano i normali flussi di incasso.
Non vedo altre ragioni per cui un’impresa, al di fuori delle esigenze di dover fare investimenti produttivi o di anticipare incassi certi da parte dei clienti, dovrebbe indebitarsi in una situazione di crisi economica e di contrazione dei ricavi. Non certo per pagare i costi fissi.
Per sostenere i costi fissi sarebbe stato più opportuno concedere dei contributi in conto spese di esercizio. L’indebitamento dovrà essere restituito e avrà, oltre che un effetto finanziario, un effetto sul conto economico in termini di oneri finanziari, seppur modesto. Avrà inoltre effetti sui rating bancari per l’incremento dell’esposizione attivata.
Le ricette di politica economica avrebbero dovuto essere di ben altro tipo.