Tra le misure cautelari interdittive previste nel nostro ordinamento è presente anche il “Divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali”. Tale divieto, che viene appunto applicato provvisoriamente a scopo cautelare, è stato recentemente comminato ad un commercialista reo di aver ideato complesse operazioni commerciali illecite poste in essere da un imprenditore.
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1) Divieto temporaneo di esercitare attività professionali o imprenditoriali
Come previsto dall’art. 287 c.p.p., le misure interdittive possono essere applicate solo quando si procede per i delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni.
Tra le misure cautelari di questo tipo, il nostro ordinamento prevede:
• “Sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori” (art. 288 c.p.p.),
• “Sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio” (art. 289 c.p.p.),
• “Divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali” (art. 290 c.p.p.).
Il citato art. 290 c.p.p.. cita espressamente:
“1. Con il provvedimento che dispone il divieto di esercitare determinate professioni, imprese o uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, il giudice interdice temporaneamente all'imputato, in tutto o in parte, le attività a essi inerenti.
2. Qualora si proceda per un delitto contro l'incolumità pubblica o contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio ovvero per alcuno dei delitti previsti dalle disposizioni penali in materia di società e di consorzi o dagli articoli 353, 355, 373, 380 e 381 del codice penale, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall'articolo 287 comma 1”.
L’applicazione di una misura cautelare interdittiva, come il divieto previsto dall’art. 290 c.p.p., risponde all’esigenza di evitare l’inquinamento probatorio e la reiterazione del reato. Non risponde invece, come è facile intuire, alla necessità di evitare il pericolo di fuga, atteso che in questo caso verrebbe applicata una misura coercitiva, come gli arresti domiciliari o la custodia in carcere.
2) Misura sospensiva comminata al commercialista
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 50065 del 06 novembre 2018, ha recentemente affrontato il caso di un commercialista a cui è stata comminata la menzionata misura cautelare del “Divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali”, quindi in sostanza una sospensione dall’attività professionale per un periodo limitato, nello specifico per la durata massima prevista per questa misura pari a 12 mesi.
Il ricorso presentato dal professionista dinanzi al supremo consesso vedeva appunto quest’ultimo chiedere la disapplicazione della misura del divieto ad esercitare l’attività professionale applicata dal Tribunale del riesame di Bologna.
I giudici avevano accolto l’appello proposto dal Pubblico Ministero del Tribunale di Forlì, secondo il quale il commercialista aveva proattivamente partecipato a reati posti in essere da un imprenditore, con il quale il professionista era in stretti rapporti.
I reati ascritti al commercialista in concorso erano “intestazione fittizia” e “autoriciclaggio”.
Nonostante le tesi difensive, i giudici della Cassazione hanno ritenuto che la misura cautelare del divieto temporaneo ad esercitare l’attività professionale fosse stata correttamente comminata, ciò in quanto dagli atti risultava inequivocabile il ruolo del commercialista in questione di “suggeritore” degli schemi evasivi perpetrati dall’imprenditore.
Inoltre la Suprema Corte ha specificato che la misura cautelare adottata va rapportata alla professione svolta dal ricorrente e alla natura dei reati contestati, che sono stati ideati ed attuati dal commercialista proprio in virtù della sua preparazione professionale.
Quindi, ha proseguito la Corte, non nel caso di specie non si è trattato dell’opera di un “quisque de populo”, bensì dell’opera di un professionista che, attingendo al proprio bagaglio professionale, aveva consigliato all’imprenditore i sotterfugi per sottrarsi agli obblighi di legge.
In conclusione la Suprema Corte ha riconosciuto corretto il percorso logico-argomentativo del Tribunale del riesame di Bologna e quindi l’applicazione della misura cautelare di cui all’art. 290 c.p.p., condannando inoltre il commercialista anche al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende di un importo di € 2.000.