Le nuove forme di microcredito ed social lending, hanno l'obiettivo di andare incontro ai bisogni di credito delle micro imprese, delle persone fisiche singole e delle famiglie che rientrano nella categoria definita col triste eufemismo “soggetti non bancabili”, cioè quelli ai quali le banche non fanno credito.
Con l’attuale crisi economica del nostro paese questa platea di soggetti si è allargata a dismisura ed il credit crunch, cioè il razionamento, la diminuzione dei crediti messa in atto dalle banche italiane negli ultimi anni ha contribuito e sta contribuendo ulteriormente alla sua crescita.
Sperare che il microcredito ed il social lending possano risolvere da soli il problema del credito a questi soggetti è, chiaramente, un’illusione ma se essi riusciranno a mobilitare delle risorse finanziarie significative, sia pure di importo non elevatissimo, ed a concedere piccoli prestiti ad alcune decine o addirittura centinaia di migliaia di persone, tutto questo potrà dare un importante contributo al superamento della crisi attuale, abbassando anche le preoccupanti percentuali di ricorso ai canali alternativi, informali ed, alle volte, illegali di reperimento di liquidità individuati dalla ricerca dell’Eurispes sopra citata.
E questi sono senz’altro degli obbiettivi realistici, possibili se in questi canali alternativi di credito entreranno soggetti che hanno queste risorse come, per esempio, le banche o le centrali cooperative.
Vediamo la disciplina del social lending, quale valida alternativa al circuito tradizionale delle banche.
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L'articolo è tratto dall'eBook Prestito tra privati e microcredito (eBook) dove viene trattata la disciplina dei due canali alternativi di finanziamento denominati “microcredito e “social lending” o “prestito tra privati tramite Internet” (o P2P) che, nati all’estero, da alcuni anni stanno prendendo piede anche nel nostro paese.
1) La disciplina del social lending
Per “social lending” (dall’inglese “to lend”, prestare), noto anche come peer-to-peer lending, abbreviato in P2P lending e tradotto in italiano come prestito tra privati, si definisce un prestito personale erogato da privati ad altri privati tramite Internet.
Questa attività si svolge sui siti di imprese od enti di social lending, senza passare attraverso i canali tradizionali rappresentati dagli intermediari finanziari autorizzati ai sensi dell’art. 106 del Testo Unico Bancario, il Decreto Legislativo n° 385 del 1993 (banche, società finanziarie, ecc.).
Nell’ordinamento giuridico italiano non c’è una disciplina specifica del social lending se non, come vedremo, per alcuni aspetti fiscali. Il fondamento legale di questa attività è rinvenibile senz’altro nel contratto di mutuo definito dall’art. 1813 del Codice Civile come “il contratto nel quale una parte consegna all’altra una quantità determinata di denaro o di altre cose fungibili e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie o qualità” con l’aggiunta, ai sensi dell’art. 1815 c.c., degli interessi, se espressamente previsti dal contratto.
Il fatto che uno o più soggetti privati (persone fisiche, imprese non bancarie o finanziarie, organizzazioni senza scopo di lucro) prestino denaro ad uno o più altri privati è perfettamente legale sin dalla notte dei tempi.
Ciò che un privato (sia persona fisica che giuridica che ente senza personalità giuridica) non può fare è l’esercizio professionale, cioè continuativo nel tempo, di questa attività perché questo configura l’esercizio dell’attività creditizia che può essere esercitata solo dagli intermediari finanziari autorizzati dalla Banca d’Italia ed iscritti nell’Albo da essa tenuto ai sensi degli artt. 106 e seguenti del Testo Unico Bancario. Chi esercita professionalmente l’attività creditizia senza questa autorizzazione incorre in sanzioni penali.
Con il social lending, chi presta denaro mediamente percepisce un tasso di interesse più favorevole rispetto a quello proposto dagli intermediari finanziari tradizionali e chi lo riceve in prestito paga un tasso di interesse leggermente più alto rispetto ai finanziamenti a medio termine per l’acquisto di macchinari, ecc., ma parecchio più basso rispetto ai tassi del normale credito al consumo.
Ciò è possibile perché i costi di intermediazione del social lending sono ridotti, in quanto il prestatore e il richiedente (il contraente il prestito, cioè il debitore) vengono messi in relazione diretta e le imprese o gli enti non profit intermediari, operando sul web con servizi altamente automatizzati, hanno costi operativi molto bassi.
Come avviene di solito nella pratica, se l’operatore di social lending, cioè il gestore del sito web su cui si svolge questa attività offre il servizio di pagamento, cioè quello di trasferimento di somme di denaro da uno o più soggetti ad uno o più altri soggetti, allora esso rientra giuridicamente nella categoria di operatori definita “Istituti di pagamento” (IP) dalla normativa europea recepita dalla legge italiana, precisamente dalla Direttiva CE n° 64 del 2007 (la c.d. Direttiva “PSD – Payment Service Directive”, recepita in Italia col Decreto Legislativo n° 11 del 2010, che al suo articolo 33 ha introdotto il nuovo Titolo V-ter del Testo Unico Bancario, il Dlgs 385/1993, che disciplina appunto gli Istituti di pagamento).
Sulla base di questi presupposti normativi, e precisamente del 4° comma dell’art. 114-novies TUB, la Banca d’Italia, all’inizio del 2013, ha autorizzato ad operare due Istituti di pagamento la cui attività principale non è la fornitura di servizi di pagamento ma la gestione di piattaforme web di social lending e dei contratti di prestito fra privati che per mezzo di esse si stipulano: Smartika (che appartiene al Gruppo Banca Sella) e Prestiamoci (i siti web sono: www.smartika.it e www.prestiamoci.it).
In caso di fallimento dell’impresa di social lending, se questa è un Istituto di pagamento ai sensi del Testo Unico Bancario modificato dal Dlgs 11/2010, il denaro del prestatore è protetto dalle azioni dei creditori dell’azienda stessa e la restituzione delle rate residue prosegue a cura della procedura fallimentare. Questo perché, ai sensi degli artt. 114-duodecies e 144-terdecies del TUB, introdotti dal Dlgs 11/2010, le somme versate all’Istituto di pagamento dai prestatori e dai debitori di operazioni di social lending costituiscono un patrimonio distinto da quello della società di capitali che svolge tale attività. Ciò non vale per un ente non profit che esercita l’attività di social lending con le modalità che abbiamo esposto in precedenza.
Infine, siccome i prestiti di social lending sono effettuati tramite Internet, quindi un mezzo di comunicazione a distanza, vale a dire una tecnologia che permette di stipulare un contratto senza che sia necessaria la contemporanea presenza delle parti o di loro rappresentanti nello stesso luogo fisico, essi, se chi riceve il prestito è un consumatore (cioè una persona fisica che acquista un servizio finanziario qual è un prestito per motivi non inerenti all’attività lavorativa da lei eventualmente svolta)16, costituiscono contratti a distanza di servizi finanziari coi consumatori. Quindi, in questo caso, ad essi si applicano le norme di tutela dei consumatori previste dagli articoli da 67-bis a 67-vicies bis del “Codice del consumo”, il Decreto Legislativo n° 206 del 2005, che si sostanziano, essenzialmente, nel diritto di informazione precontrattuale (cioè nel diritto di ricevere una serie di informazioni previste dalla legge prima che il contratto sia concluso) e nel diritto di recesso dal contratto stesso entro 14 giorni di calendario da parte del consumatore senza penalità e senza che sia necessario indicare il motivo del recesso.
2) Aspetti fiscali del social lending
Per quanto riguarda l’aspetto fiscale di questa attività, gli interessi percepiti a titolo di remunerazione dai soggetti finanziatori o prestatori, cioè da coloro che al di fuori dell’esercizio di un’attività di impresa offrono il loro denaro in prestito attraverso i portali on line di social lending, costituiscono redditi di capitale ai sensi dell’art. 44, comma 1°, lettera a) del Testo unico delle imposte sui redditi (TUIR).
Essi sono quindi assimilati agli interessi derivanti da mutui, depositi e conti correnti che pagano l’imposta sostitutiva del 26% sulle rendite finanziarie applicata con ritenuta alla fonte dal gestore del portale.
Il comma 44° dell’art. 1° della Legge 205/2017 (legge di bilancio per il 2018) assoggetta però gli interessi percepiti dai prestatori di fondi ai portali di social lending alla ritenuta alla fonte a titolo di imposta del 20% (applicata dai soggetti gestori dei portali) e non a quella del 26%. La norma riportata nel comma 44° dell’art. 1° della Legge 205/2017 prevale su quella del comma 1° dell’art. 3 del Decreto-Legge n° 66 del 2014, convertito in Legge n° 89 del 2014, che ha introdotto l’aliquota citata del 26% perché successiva nel tempo (art. 15 delle Disposizioni sulla legge in generale premesse al Codice Civile).
Il 1° comma dell’art. 78 del “Codice del terzo settore” contenuto nel Decreto Legislativo n° 117 del 2017 prevede un’eccezione per i gestori di portali on line di social lending finalizzati al finanziamento ed al sostegno di attività di interesse generale senza scopo di lucro e con finalità solidaristiche e di utilità sociale previste dall’art. 5, 1° comma, del Dlgs 117/2017 che possono essere gestite dagli “Enti del terzo settore – ETS” (qualifica civilistica e fiscale delle organizzazioni senza scopo di lucro o non profit che sostituirà entro il 2020 la qualifica tributaria di “Organizzazione non lucrativa di utilità sociale – ONLUS” attualmente vigente disciplinata dal Dlgs 460/1997), che devono operare, sugli importi percepiti a titolo di remunerazione dai soggetti che prestano fondi per mezzo di tali portali, una ritenuta alla fonte a titolo di imposta pari al 12,50% pari a quella sui titoli del debito pubblico.
Pertanto, sono escluse da questa agevolazione le attività di social lending finalizzate a concedere prestiti ai consumatori oppure ad imprenditori o lavoratori autonomi oppure a enti senza scopo di lucro che esercitano attività diverse da quelle citate.