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DEMANSIONAMENTO: IL LAVORATORE NON PUO RIFIUTARE LA PRESTAZIONE DI LAVORO

Demansionamento: il lavoratore non puo rifiutare la prestazione di lavoro

Il rifiuto di svolgere mansioni inferiori è possibile solo a certe condizioni. Necessario l'avallo giudiziario per rifiutare la prestazione.

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Nel rapporto di lavoro è legittimo  il rifiuto da parte del lavoratore di essere addetto allo svolgimento di mansioni che non gli spettano , sempre che tale rifiuto sia proporzionato all'illegittimo comportamento del datore di lavoro e sia conforme a buona fede. 

Questo il principio ribadito ancora una volta dalla Cassazione lavoro nella sentenza n. 836 del 16.1.2018.
Nel caso specifico,  ad esempio la Corte di Cassazione  ha ritenuto non giustificato il rifiuto della prestazione da parte del dipendente,  e legittimo il suo licenziamento motivato dall'assenza  dal  posto di lavoro, dopo che per due mesi era stato adibito a mansioni inferiori 

La Suprema Corte conferma la legittimità del licenziamento e  ricordando precedenti giurisprudenziali conformi,  afferma che  il lavoratore  vittima di demansionamento può far presente l’illecito e rivolgersi al giudice del lavoro, ma non può di sua iniziativa sospendere del tutto la prestazione lavorativa , cui è obbligato per contratto, fintantoché il datore di lavoro, da parte sua, onora il  principale obbligo contrattuale che è l’erogazione della retribuzione. 

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tratto da "Licenziamento e rifiuto di mansioni inferiori" COMMENTO alla sentenza di Cassazione lavoro n. 836-2018 dell'avv. R. Staiano. 

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1) Il caso: licenziamento e rifiuto della prestazione lavorativa

 Un lavoratore, assegnato per  2 mesi a mansioni inferiori alla sua qualifica contrattuale,  aveva richiesto la rassegnazione alle mansioni precedenti  con una raccomandata e  dal giorno successivo si era assentato dal lavoro,  per piu di quattro giorni.

L'azienda lo ha licenziato per assenza ingiustificata dal posto di lavoro.
Presso il giudice del lavoro il ricorso era stato respinto mentre la Corte di appello  ha ritenuto sussistente una legittima forma di autotutela del lavoratore  (aart. 1460 c.c.)  e ha giudicato illegittimo il licenziamento , con conseguente condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970.
La società ha presentato ricorso in Cassazione   che è stato accolto.
ll Collegio ha voluto confermare l'orientamento già enunciato in precedenti ipotesi concernenti il rifiuto della prestazione a seguito di adibizione a mansioni inferiori, orientamento in base al quale il lavoratore non può rendersi totalmente inadempiente alla prestazione sospendendo ogni attività lavorativa, fintanto che il datore di lavoro assolve  i propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, assicurazione del posto di lavoro) . Infatti  in un contratto , una  parte contrattuale puo  rendersi totalmente inadempiente e invocare l'art. 1460 c.c. soltanto se è totalmente inadempiente l'altra parte.
I giudici hanno  dunque cassato la sentenza impugnata, in quanto la Corte territoriale non si era  soffermata sulla tempistica degli avvenimenti, e in particolare sull'assenza dal posto di lavoro già nel giorno immediatamente successivo alla lettera di diffida inoltrata al datore di lavoro,  elemento non trascurabile,  che evidenzia la mancanza di buona fede  richiesta dall'art. 1460 c.c., nell'ambito della valutazione complessiva del comportamento del lavoratore . 
Hanno quindi rigettato le domande di accertamento della illegittimità del licenziamento e di applicazione dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970 e accolto la richiesta dell'azienda datrice di lavoro.

2) Precedenti giurisprudenziali sul rifiuto della prestazione e dequalificazione

 Tale principio è stato seguito anche da precedenti pronunce giurisprudenziali di legittimità:

- Cassazione civile, sez. lav., 26/06/1999,  n. 6663

- Cass. civ., Sez. lavoro, 19/12/2008, n. 29832

- Cassazione civile, sez. lav., 20/07/2012,  n. 12696

- Cassazione civile, sez. lav., 29/01/2013,  n. 2033

- Cassazione civile, sez. lav., 23/04/2015,  n. 8300: 

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