La Corte di Cassazione, nella sentenza 15435 del 26 luglio 2016, ribadisce che il datore di lavoro deve provare con elementi fattuali le esigenze organizzative che portano al trasferimento di una lavoratrice dopo il rientro dalla maternita d una sede di lavoro distante 150 kilometri dalla precedente . In caso contrario si evidenzia l'intento discriminatorio verso la lavoratrice licenziata per averlo rifiutato
IL CASO
La Corte di appello, in accoglimento del ricorso della lavoratrice e in totale riforma della sentenza del Tribunale, dichiarava la nullità del trasferimento, delle sanzioni disciplinari e del licenziamento disposti dall’azienda, con la condanna alla reintegra nel posto di lavoro occupato presso l'unità locale dell’azienda ed al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto a decorrere dalla data del recesso. La Corte di appello rilevava come le decisioni datoriali fossero riconducibili ad un disegno discriminatorio posto che la lavoratrice, dopo soli tre giorni dall'inoperatività del divieto di cui all'art. 56 d.lgs. n. 151/2001, e al termine di un'astensione dal lavoro di un anno e quattro mesi, era stata trasferita ad un punto vendita distante oltre 150 km; che la sede di appartenenza non appariva necessitare di una riduzione di personale dal momento che, all'inizio dell'assenza dell'appellante, e poi nel marzo 2011, pendente la controversia, erano stati assunti due lavoratori; che la dimostrazione dell’affermato calo di vendite nell'unità dell’azienda era stata affidata a meri prospetti riassuntivi predisposti dallo stesso datore di lavoro e che avevano trovato conferma solo nelle generiche affermazioni dei dipendenti ancora in forza; che, per ciò che riguardava l'unità di Novara, nella quale già risultavano impiegati dodici addetti, non erano state prospettate ragioni dirimenti, in base alle quali si dovesse provvedere ad un trasferimento da una sede che poi era stata tempestivamente reintegrata e non ad una nuova assunzione: tali elementi, nella valutazione della Corte, erano "idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di atti, patti o comportamenti discriminatori", secondo le previsioni dell'art. 40 d.lgs. n. 198/2006, con la conseguenza che sarebbe spettato al datore di lavoro provare l'insussistenza delta discriminazione.
L’azienda ha presentato ricorso in Cassazione, affidandosi a due motivi:
- viene dedotta violazione o falsa applicazione degli artt. 2103 c.c. (56 d.lgs. n. 151/2001 e 40 d.lgs. n. 198/2006, avendo la Corte di appello erroneamente ritenuto che tali norme non fossero state rispettate dall'azienda e così pervenendo ad affermare l'esistenza di un comportamento discriminatorio nei confronti della lavoratrice, quando invece, con riferimento all'applicazione dell'art. 2103 c.c., risultavano attribuite a quest'ultima, in sede di trasferimento, mansioni (di cassiera) equivalenti a quelle (di commessa) in precedenza svolte, in quanto, le une e le altre, appartenenti al 3° livello CCNL Terziario, ed era stata inoltre provata la sussistenza di comprovate ragioni organizzative, tecniche e produttive, stante l'aumento di fatturato del punto vendita di destinazione e il calo di vendite in quello di appartenenza;
- viene dedotta violazione e/o falsa applicazione dell'art. 30, comma 1, I. 4 novembre 2010, n. 183 in relazione alla norma di cui all'art. 2103 c.c. e alla giurisprudenza formatasi al riguardo, sul rilievo che la Corte di appello, anziché limitarsi a verificare l'esistenza o meno di ragioni di carattere tecnico, organizzativo o produttivo a sostegno del trasferimento, aveva svolto un concreto, quanto illegittimo, controllo di merito circa la scelta operata dal datore di lavoro.
I giudici della Cassazione ritengono infondati i motivi e respingono il ricorso, ritenendo che la previsione che gli elementi di fatto, idonei a fondare la presunzione di esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori (e, quindi, ad attribuire al datore di lavoro l'onere della prova di insussistenza della discriminazione), possano essere tratti "anche" da dati di carattere statistico ed è palesemente diretta a corroborare lo sforzo difensivo del lavoratore e a facilitare l'emersione della condotta illecita, di cui egli sia stato vittima, in un'ottica di affiancamento agli elementi fattuali (o di chiarificazione) e non già sostitutiva di essi, in presenza di vicende la cui lettura globale non può che essere rimessa, nella quasi totalità dei casi, ad una pluralità di tratti distintivi e alla loro univoca convergenza. Ne consegue che non è incorsa nel vizio denunciato la sentenza di secondo grado, là dove ha ritenuto che spettasse al datore di lavoro provare, ai sensi dell'art. 40 del d.lgs. 298/2006 l'insussistenza della discriminazione, posto che tale conclusione è stata raggiunta sulla base della motivata ricognizione di elementi di fatto idonei a fondare, con i requisiti di legge, l'accertamento della sua esistenza.
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1) Rientro dalla maternità: art. 56 D.lgs. 151/2001
L’art. 56 del d.lgs. 151/2001 stabilisce che al termine dei periodi di astensione per maternità , le lavoratrici hanno diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate all'inizio del periodo di gravidanza o in altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino; hanno altresì diritto di essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti , nonché di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro, previsti dai contratti collettivi ovvero in via legislativa o regolamentare, che sarebbero loro spettati durante l'assenza. Tali disposizioni si applicano anche al lavoratore al rientro al lavoro dopo la fruizione del congedo di paternità. Negli altri casi di congedo, di permesso o di riposo disciplinati dal presente testo unico, la lavoratrice e il lavoratore hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, al rientro nella stessa unità produttiva ove erano occupati al momento della richiesta, o in altra ubicata nel medesimo comune; hanno altresì diritto di essere adibiti alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti. Le disposizioni dell’art. 56 citato si applicano anche in caso di adozione e di affidamento e fino a un anno dall'ingresso del minore nel nucleo familiare.
Sulla base di tali principi si è espressa la giurisprudenza la quale ha stabilito che:
- ai sensi dell'art. 56 d.lg. 26 marzo 2001 n. 151, la lavoratrice madre, al termine del periodo di congedo per maternità, ha diritto di rientrare nella stessa unità produttiva ove era occupata all'inizio del periodo di gravidanza. La chiusura e il trasferimento in altra città dell'unità cui la lavoratrice è adibita non ne giustifica la sospensione dalla retribuzione in applicazione analogica dell'art. 54 comma 4 d.lg. 26 marzo 2001 n. 151, quando risulti che l'attività è continuata in altra città (Corte appello Milano, 06/08/2012);
- ai sensi dell'art. 56 d.lg. n. 151 del 2001, la lavoratrice madre, al termine del periodo di congedo per maternità, deve essere adibita alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti: l'ingiustificabile dimensionamento costituisce una forma di discriminazione indiretta che pone il lavoratore di un determinato sesso in una situazione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell'altro sesso (Corte appello Torino, sez. lav., 02/08/2010, n. 666).
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