Ad oggi la Convenzione è stata ratificata da molti Paesi, fra cui:
Stati Uniti (1988, in vigore dal ----), Regno Unito ed Irlanda del Nord (1989, in vigore dal 1.1.1992, con differenti atti di ratifica estesa anche alle ex colonie, fra cui Jersey, Guersney, Isola di Man, Gibilterra, Bermuda, Turks and Caicos)), Francia (1991), Canada (1992, in vigore 1.1.1993 per alcune provincie), Cina (1992), Cipro (1998), Lussemburgo (2003, in vigore dal 1.1.2004), Liechtenstein (2004, in vigore dal 1.4.2006), Repubblica di San Marino (2005, in vigore dal 1.8.2006), Svizzera (2007, in vigore dal 1.7.2007).
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1) Gli obiettivi della Convenzione
Come rilevato dalla migliore Dottrina, la Convenzione ha principalmente carattere internazionalprivatistico, avendo quale obiettivo principale quello di risolvere i potenziali conflitti di leggi che potrebbero interessare un trust, mediante l’indicazione di norme di collegamento che conducano all’individuazione della legge applicabile.
Altrimenti detto, la Convenzione si prefigge di regolare, in via sovranazionale, gli eventuali conflitti fra le leggi degli Stati ratificanti, senza imporre agli stessi obblighi ulteriori, come quello di legiferare positivamente sull’istituto in questione.
Non mancano, tuttavia, alcune disposizioni di natura squisitamente sostanziale (quali ad es. gli artt. 2, 11, comma I e 12) che si possono classificare quali norme di diritto materiale uniforme, volte cioè a disciplinare, in termini positivi, alcuni aspetti dell’istituto conseguenti al suo riconoscimento-introduzione nell’ordinamento del paese aderente.
Secondo obiettivo della Convenzione è quello di assicurare il riconoscimento dei trust nei Paesi c.d. non trust, al fine di evitare incertezze sull’operatività dell’istituto, sempre più impiegato nella circolazione e gestione della ricchezza, soprattutto mobiliare.
Unici limiti all’applicazione della Convenzione sono costituiti dall’ordine pubblico interno (art. 15), dalle norme imperative del foro (art. 16) e da quelle di applicazione necessaria (art. 18).
Il testo della Convenzione è il distillato del confronto (epico) fra tradizioni giuridiche molto lontane fra loro e dei compromessi a cui i rispettivi esponenti sono giunti, nel predisporre un accordo che potesse trovare esecuzione in paesi tanto di civil law (che ignoravano completamente l’istituto) quanto in quelli di common law (le cui evoluzioni avevano condotto a complesse quanto irriducibili diversificazioni dell’istituto).
Ragion per cui al suo art. 2, la Convenzione non offre una definizione di trust, preferendo, piuttosto, indicare quali siano gli elementi minimi in presenza dei quali si possa ritenere di trovarsi innanzi ad un trust ai fini della Convenzione; in altre parole, descrivendo quali rapporti debbano essere riconosciuti come tali dagli Stati aderenti, ma solo, si ripete, ai fini della Convenzione.
I connotati così vaghi della descrizione hanno, quindi, indotto la Dottrina (Lupoi) a parlare di “trust amorfo”, perché il contenuto della citata norma potrebbe “attagliarsi anche a istituti di diritto italiano che nessuno penserebbe mai di qualificare ‘trust’, per esempio il mandato a società fiduciaria e l’affidamento di somme per investimento a gestori specializzati” (M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2011, p. 10), oltrepassando la stessa i trust conoscibili dall’esperienza comparatistica, per assorbire, in definitiva, tutti quei rapporti giuridici che rispondano ai requisiti minimi ivi precisati. E sui cui si tratterà nel prossimo contributo.
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