IL CASO
Il Tribunale di merito di Busto Arsizio aveva condannatoi due imputati, direttore di produzione ed un suo stretto collaboratore, al risarcimento dei danni cagionati alle costituite parti civili (due lavoratori), in relazione ai reati di cui agli artt. 81 cpv., 110 e 572 cod. pen., per avere, all'interno della azienda, costituito un gruppo che maltrattava i lavoratori, non graditi perché si erano rifiutati di conformarsi alle logiche di quel gruppo - tra le quali quelle di sottostare a scherzi, anche a sfondo sessuale, da parte dei superiori e dei colleghi - o perché iscritti ad organizzazioni sindacali o perché ritenuto non adeguati alla gestione, ponendo in essere nei loro confronti una serie di condotte vessatorie, in particolare consistenti, in approcci sessuali tanto verbali quanto fisici, sempre rifiutati dalle ricorrenti, nella loro assegnazione deliberata a macchinari difettosi con rifiuto di provvedere alla relativa riparazione, in contestazioni e rimproveri pubblici, a contenuto gratuitamente offensivo; in demansionamenti punitivi e episodi di preordinato isolamento dei lavoratori.
La Corte di appello di Milano riformava parzialmente la pronuncia di primo grado, riconoscendo ai due imputati le attenuanti generiche e dichiarando estinti i reati loro ascritti, e confermava nel resto la medesima pronuncia del Tribunale. Rilevava però la Corte di appello come i reati, in ragione del riconoscimento delle attenuanti ex art. 62 bis cod. pen., dovessero essere dichiarati prescritti; ma come la sentenza di primo grado dovesse essere confermata agli effetti civili, in quanto le condotte accertate, sulla base dei risultati dell'espletata istruttoria dibattimentale, avevano integrato gli estremi del delitto contestato, anche nella forma aggravata riferibile ad entrambi i capi di imputazione, dei quali uno contestato a tutti e due gli imputati e l'altro al direttore di produzione. Avverso tale sentenza gli imputati hanno presentato ricorso, agli effetti civili.
Ritiene la Corte di Cassazione che i ricorsi siano fondati, di conseguenza annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato di cui all'art. 572 cod. pen. non sussiste.
1) IL COMMENTO
Il c.d. "mobbing" consiste in atti e comportamenti connotati da violenza o persecuzione psicologica, svolti con carattere sistematico e duraturo, posti in essere dal datore di lavoro che miri a danneggiare il lavoratore al solo fine di estrometterlo dal lavoro, con una condotta molesta e vessatoria, integrante specifiche ipotesi di reato.
La figura di reato maggiormente vicina al mobbing, è individuata, dalla giurisprudenza di legittimità, nella fattispecie dei maltrattamenti in famiglia, p. e p. dall’art. 572 c.p. commessa da persona dotata di autorità per l'esercizio della professione e che si sostanzia in una condotta che si protrae nel tempo con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del lavoratore. (...)
La sentenza in esame, sul tema della possibile applicazione della disciplina dell’art. 572 c.p. anche all'ambito lavorativo ha precisato che ciò che è necessario, oltre al mero rapporto di sovraordinazione è che il rapporto di lavoro si svolga con forme e modalità tali da assimilarne i caratteri (relazioni intense ed abituali, consuetudini di vita tra i soggetti interessati, soggezione di una parte con corrispondente supremazia dell'altra, fiducia riposta dal soggetto più debole in quello che ricopre la posizione di supremazia – Cass. pen., 685/2011), a quelli propri di un rapporto di natura "para-familiare"....
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