- l’adozione dei nuovi coefficienti di trasformazione;
- l’aggancio dell’età di pensionamento con criteri di automaticità alle dinamiche demografiche a partire dal 2015;
- una ristrutturazione delle “finestre” che comporta un allungamento della permanenza al lavoro e quindi un rinvio del pensionamento fino ad un anno dopo la maturazione del diritto se lavoratore dipendente, a 18 mesi se autonomo e quindi secondo criteri di maggiore flessibilità e di aderenza più stretta alla maturazione del diritto da parte delle persone singole;
- l’accelerazione – sicuramente un po’ brusca in conseguenza del richiamo della Ue – dell’allineamento a 65 anni dell’età di vecchiaia delle lavoratrici del pubblico impiego che si completerà nel 2012 anziché nel 2018.
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1) La riforma del sistema delle pensioni
Si tratta di provvedimenti significativi, anche sul piano finanziario. Basti pensare che su effetti finanziari già scontati a legislazione vigente cumulativamente pari a poco meno di 6 miliardi cumulati nell’arco temporale tra il 2010 e il 2019, si aggiungono effetti finanziari cumulati pari a 1,450 miliardi dal 1° gennaio 2012 in poi per effetto della sola misura relativa all’anticipazione delle lavoratrici della pubblica amministrazione. A questi risultati si aggiungono quelli derivanti dal 2015 a causa del graduale innalzamento dell’età pensionabile che entrerà in sinergia positiva con gli effetti della revisione triennale dei coefficienti.
Si pone quindi una prima considerazione a cui fa seguito una domanda.
A parte le sollecitazioni ad agire provenienti dagli organismi comunitari (che hanno in preparazione un Libro bianco sulle pensioni), molte di queste misure importanti sono state assunte nel quadro di processi di risanamento dei conti pubblici.
In sostanza, la previdenza, per l’incidenza della sua spesa sul Pil e sul complesso della spesa pubblica, è stata chiamata a concorrere alla realizzazione di manovre complessive di finanza pubblica, anche allo scopo di mandare dei segnali di credibilità sui mercati internazionali che apprezzano sempre gli interventi sulle pensioni. Ed è un bene che sia stato così.
Ma non sarebbe stato possibile – ecco la domanda – avviare un processo riformatore delle pensioni in un quadro di riequilibrio delle politiche di welfare e per il lavoro? In altre parole, non sarebbe stato più opportuno operare quello scambio tra vecchio e nuovo welfare di cui tanto si parla? Certo, questo problema è stato affrontato e risolto a proposito delle risorse derivanti dall’aumento dell’età pensionabile nel pubblico impiego, le quali saranno destinate a politiche familiari, ad interventi per la non autosufficienza e per gli asili nido.
Tuttavia, un collegamento più ampio e diretto tra politiche tradizionali a favore dei nonni e dei padri e nuove misure rivolte alla tutela dei figli avrebbe meglio corrisposto a quel patto tra generazioni che deve essere sicuramente riscritto in termini più equi.
Tutto ciò premesso, sono stati risolti davvero tutti i problemi? Siamo alla fine della storia in materia di pensioni?
Non credo. L’esperienza insegna che sono sempre necessari interventi di manutenzione. Ma nel nostro caso occorrono pure ulteriori misure di carattere strutturale.
Anche ammesso (e non concesso) che l’Inps (e non è così perché la crisi finanziaria ha pesato anche sui conti dell’Istituto) versi in condizioni tanto solide da non temere nulla, andrebbe meglio considerata, almeno, la situazione dell’Inpdap che soffre di handicap strutturali di cui l’Istituto non porta la responsabilità ma che gettono un’ombra inquietante sul futuro del suo bilancio. Ad avviso di chi scrive, inoltre, non si tengono nel debito conto, nel dibattito, le conseguenze della crisi finanziaria ed economica sui sistemi pensionistici, che tanto preoccupano la Ue. Basti pensare che, nel rapporto sull’invecchiamento Ue, gli effetti della crisi economica e il crollo del Pil vengono cifrati in un incremento medio dell’incidenza della spesa nell’ordine del 2%. Anche in Italia – basta scorrere i documenti ufficiali - l’evoluzione della spesa pensionistica sul Pil (per effetto del crollo riscontrato, al denominatore, nel 2009) si è profondamente trasformata nel senso che vi è stata, a partire dal 2010, un’anticipazione del ‘picco’ (al di sopra del 15%) previsto per il 2035, mentre il rientro al di sotto del 14% si è spostato in avanti di venti anni (al 2060) rispetto alle previsioni precedenti. I correttivi finanziari funzionano, ma non sono in grado di modificare la linea di tendenza della curva della spesa se non di pochi decimali di punto tra qualche anno.
Che fare allora ? Sono assolutamente convinto che siano stati adottati dei provvedimenti assai significativi e condivido le considerazioni che portano a ritenere che, nei settori privati, è necessario usare prudenza in materia di pensioni e di età pensionabile a fronte degli attuali andamenti dell’occupazione. Anche se non si può non prendere atto del fatto che è stato proprio il Governo ad allungare – tramite la scorciatoia delle finestre – l’età pensionabile di fatto anche nel lavoro privato, nonostante la crisi e con criteri, per di più molto avari, nella definizione delle deroghe. Tuttavia, in una prospettiva che si colloca nell’orizzonte della fine della legislatura non sarebbe sbagliato assumere qualche altra misura di riordino, non punitiva, ma sensata.
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2) La pensione di vecchiaia delle donne del mondo privato
L’attenzione cade, dunque, sull’età di vecchiaia delle lavoratrici private, dipendenti ed autonome.
Chi scrive non ha mai sostenuto che a loro tocchi inevitabilmente di arrivare a 65 anni, come nel pubblico impiego. Ciò non significa però che non si debba riconoscere che il contesto normativo è cambiato e sta ancora di più cambiando. Anche per loro. Prima della riforma Maroni del 2003 e degli aggiustamenti allo “scalone” effettuati dal Governo Prodi nel 2007, sarebbe stato iniquo elevare l’età di vecchiaia delle donne del mondo privato. Allora, quando il requisito anagrafico dell’anzianità era fermo a 57 anni (con 35 anni di contributi), ad elevare l’età di vecchiaia delle donne oltre i 60 anni, si sarebbe determinato una singolare situazione.
Le donne sarebbero state costrette ad andare in pensione ad un’età superiore ai 60 anni (perché difficilmente le lavoratrici private dispongono dell’anzianità contributiva necessaria per avvalersi del trattamento di anzianità), mentre gli uomini – che quella disponibilità hanno per la loro più stabile e continuativa presenza nel mercato del lavoro – erano in grado di andarsene a 57 anni o poco più.
Ora questa situazione è mutata, perché quando andranno a regime, nel 2013, i nuovi requisiti dell’anzianità l’età minima – concorrente con quota 97 – sarà di almeno 61 anni per i dipendenti e 62 per gli autonomi (con l’aggiunta di un anno di “finestra”). Si determinerà, allora, la palese contraddizione per cui l’età di vecchiaia delle donne nel settore privato prevederà un requisito anagrafico inferiore a quello richiesto per il trattamento di anzianità. In sostanza, sarà la stessa evoluzione normativa a spingere l’ordinamento verso la possibile introduzione di un pensionamento flessibile in un range compreso tra 62 e 67 anni, corredato dal correttivo dei coefficienti di trasformazione e dalla norma che,dal 2015, adeguerà automaticamente l’età pensionabile all’evoluzione demografica.
Tale nuovo contesto potrebbe consentire un allineamento nel 2013 dell’età di vecchiaia delle donne del settore privato alla soglia minima prevista per l’anzianità, al netto dell’anno delle finestre, che continuerebbe ad aggiungersi. In questo modo si preparerebbe un impianto di pensionamento flessibile – appunto
da 62 a 67 anni con i correttivi indicati – nel modello contributivo, in modo di aumentare l’età pensionabile e tener conto nel medesimo tempo delle propensioni individuali delle persone. Con una gittata più lunga occorre porsi il problema della sorte previdenziale dei giovani. Il problema non è dato dal calcolo contributivo, ma da una vita lavorativa connotata da momenti di discontinuità e da remunerazioni non sempre adeguate. Per affrontare questo tema deve intervenire la fiscalità generale tramite il finanziamento di una pensione di base. È questa la proposta centrale di un progetto di legge di cui io sono primo firmatario alla Camera, mentre il sen. Tiziano Treu lo è al Senato. Si tratta di un progetto di legge di delega ed ha come destinatari i nuovi occupati dal 2011, ai quali sarà applicata, col metodo contributivo, la medesima aliquota (intorno al 24-26%), qualunque sia la loro tipologia lavorativa (dipendente, autonomo o parasubordinato, anche se nel caso dei lavoratori autonomi è prevista una maggiore gradualità per evidenti motivi). In questo modo, non solo si ridurrebbe il costo del lavoro, ma si porrebbe termine a quel divario di natura previdenziale che, insieme alla disciplina del licenziamento, ha prodotto l’attuale dualismo nel mercato del lavoro. Il nuovo sistema, poi, dovrebbe poggiare su di uno zoccolo – definito pensione di base e conseguibile sulla base di taluni requisiti anagrafici e contributivi – ragguagliato all’importo dell’assegno sociale e finanziato dalla fiscalità generale. Questa impostazione dovrebbe meglio rispondere alle esigenze delle giovani generazioni, le quali saranno costrette a mettere in conto percorsi lavorativi meno stabili e continuativi di quelli delle precedenti generazioni. Sarebbe altresì corretto uno dei più evidenti limiti della c.d. riforma Dini (legge n. 335 del 1995): non aver previsto nessun elemento solidaristico infragenerazionale, al pari di quello assicurato, nel modello retributivo, dall’integrazione al minimo e dal riconoscimento delle maggiorazioni sociali (istituti che spariscono nel sistema contributivo). Abbiamo detto che i destinatari del progetto sarebbero i futuri nuovi occupati; ciò per evidenti motivi di tenuta economica del modello. A favore dei giovani già entrati nel mercato del lavoro ed iscritti alla Gestione separata presso l’Inps si può prevedere, a correttivo, un incremento ope legis – una sorta di bonus – del loro montante contributivo.
Occorre poi tener presente un altro aspetto che affronterò solo per inciso in questa prefazione, ma che riveste un’importanza notevole. A suo tempo, quando il legislatore scelse di caricare sulle generazioni future i costi sociali del risanamento, si disse che sarebbe stata la “seconda gamba” ovvero la previdenza privata a capitalizzazione a compensare il differenziale nel tasso di sostituzione.
Purtroppo non è stato così. I fondi pensioni e le altre forme rimangano un’esperienza importante ma sostanzialmente elitaria. I medesimi aspetti critici che afferiscono alla presenza dei giovani sul mercato del lavoro e che si riversano sulla previdenza obbligatoria, producono effetti analoghi anche su quella privata.