Prima di precisare cosa debba intendersi per “tributi”, è interessante conoscere l’orientamento della Corte costituzionale sul concetto di “legge tributaria”, soprattutto ai fini referendari.
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1) Orientamento della Corte Costituzionale sul concetto di “legge tributaria”
Con la sentenza n. 26/1982, la Corte Costituzionale ha chiarito che gli elementi basilari indispensabili, affinchè una legge possa qualificarsi tributaria sono:
- l’elemento dell’ablazione delle somme con attribuzione delle stesse ad un ente pubblico;
- la loro destinazione allo scopo di apprestare i mezzi per il fabbisogno finanziario dell’ente impositore.
Inoltre, con la sentenza n. 63/1990 la Corte Costituzionale ha precisato: «che il disposto dell’art. 75, secondo comma, Cost. relativo alle leggi tributarie concerne non solo le imposte ma anche le tasse, concorrendo queste ultime, in quanto impositive di un sacrificio economico individuale e sia pure con differenti presupposti e natura giuridica, ad integrare la finanza pubblica. Sicché, stante la medesima ratio, per l’esclusione della consultazione referendaria non sarebbe possibile porre alcuna distinzione tra le due categorie di tributi».
Ancora, la sentenza n. 2/1995 della Corte Costituzionale ha ribadito che la nozione di “leggi tributarie”, ai sensi del ricordato art. 75 Cost., è caratterizzata dalla ricorrenza di due elementi essenziali:
- da un lato, l’imposizione di un sacrificio economico individuale realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio;
- dall’altro, la destinazione del gettito scaturente da tale ablazione al fine di integrare la finanza pubblica, e cioè allo scopo di apprestare i mezzi per il fabbisogno finanziario necessario a coprire spese pubbliche (vedi sentenze n. 26/1982 e n. 63/1990).
In sostanza, secondo il Giudice delle Leggi, le caratteristiche essenziali del tributo sono, come chiariremo meglio in seguito, la doverosità della prestazione ed il collegamento di questa ad una pubblica spesa, quale è quella, per esempio, per il servizio giudiziario (sentenza n. 73/2005) oppure per il prelievo erariale unico (sentenza n. 334/2006).
Inoltre, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 04 del 16 gennaio 1957 ha stabilito il seguente principio: «L’art. 23 della Costituzione prescrive che l’imposizione di una prestazione patrimoniale abbia “base” in una legge, ma non esige che la legge, che conferisce il potere di imporre una prestazione, debba necessariamente contenere l’indicazione del limite massimo della prestazione imponibile. Il principio posto nell’art. 23 della Costituzione esige, non soltanto che il potere di imporre una prestazione abbia base in una legge, ma anche che la legge, che attribuisce tale potere, indichi i criteri idonei a delimitare la discrezionalità dell’ente impositore nell’esercizio del potere attribuitogli».
Ciò detto, sul piano dei principi costituzionali, va precisato che prima degli interventi chiarificatori della Consulta richiamati in apertura (e di cui si dirà meglio in seguito), elaborare una definizione di cosa fosse concretamente “un tributo” rappresentava un’impresa difficile e titanica, soprattutto alla luce della varietà delle entrate patrimoniali che lo Stato, nel corso degli anni, ha istituito, sostanzialmente al fine di conseguire un gettito per coprire le proprie spese e quelle degli enti locali.
A ciò si è aggiunto, oltre al notevole ed incerto quadro dottrinario, anche il fatto che la Corte di Cassazione, con varie sentenze, ha dato un concetto dilatato, sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo, persino in netto contrasto con i giudici costituzionali.
Ed infatti, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 25551 del 23/10/2007, ha precisato quanto segue: «Per poter affermare la giurisdizione tributaria quando si controverte di un’entrata pubblica, occorre predicarne la natura di “tributo”, nozione questa che è comprensiva di imposte e di tasse: le imposte afferiscono a fatti che manifestano la capacità contributiva del soggetto e sono dirette ad approntare i mezzi finanziari per il perseguimento dei fini generali dello Stato o di altri enti impositori; le tasse sono invece legate al finanziamento, in particolare, di un’attività o di un servizio pubblico e riguardano specificamente il contribuente, potenziale o effettivo fruitore dello stesso.
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2) Che cos’è concretamente “un tributo” e cos’è una tassa
Deve allora considerarsi, come appena rilevato, che:
- le imposte consistono in entrate pubbliche destinate indifferenziatamente ad alimentare la finanza pubblica per consentire il conseguimento delle finalità di interesse pubblico di cui è portatore l’ente impositore; sono espressione della solidarietà generale (art. 53, primo comma, Cost.: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche….”) e devono necessariamente essere relazionate alla condizione reddituale e/o patrimoniale degli obbligati (prosegue l’art. 53, primo comma, Cost.: “….in ragione della loro capacità contributiva” senza che rilevi la fruizione dei servizi pubblici in generale, di cui pure sono destinate ad approntare il finanziamento;
- le tasse, invece, costituiscono entrate pubbliche differenziate in quanto destinate al finanziamento di una funzione o di un servizio pubblico specifico e che vedono, come soggetto inciso dall’imposizione, l’effettivo o potenziale fruitore del servizio medesimo. In tal caso, il carattere differenziato e la finalità specifica dell’imposizione si coniugano all’individuazione dei soggetti destinatari dell’imposizione, che sono quelli fruitori del servizio pubblico; talché si ritiene che ciò soddisfi di per sé la prescritta condizione della capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.), ma senza che da ciò emerga un rapporto di commutatività e, meno ancora, di sinallagmaticità. Per descrivere questo nesso tra entrata pubblica e servizio erogato si parla, in dottrina, di paracommutatività, che caratterizza appunto le tasse rispetto alle imposte, da una parte, e, dall’altra, rispetto ad altre entrate pubbliche parimenti mirate a finanziare un servizio mediante erogazioni dei fruitori del servizio stesso.
In questo ambito, le tasse costituiscono come sottolineato dalla dottrina fattispecie di confine tra le imposte e le entrate patrimoniali extratributarie».
Alla luce dei generali principi di cui sopra, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la succitata sentenza n. 25551 del 23/10/2007 hanno statuito quanto segue: «Deve quindi distinguersi tra tassa, da una parte, che condivide la natura tributaria delle imposte, e, dall’altra, canoni (o tariffe o diritti speciali) e prezzi pubblici, che rientrano nella categoria delle entrate patrimoniali pubbliche extratributarie; distinzione questa che si racchiude in una qualificazione formale prima ancora che contenutistica. E’ il legislatore che assegna ad una determinata prestazione del soggetto che fruisce il servizio la qualificazione di tassa, e così la assoggetta al regime dei “tributi”, ovvero di canone o prezzo pubblico; e costruisce alternativamente il nesso tra entrata pubblica ed erogazione del servizio vuoi in termini di para commutatività (tassa), vuoi di commutatività o di vera e propria sinallagmaticità (entrate pubbliche extratributarie); come risultava, ad esempio, dal raffronto tra canone demaniale e tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche la cui sottile linea di demarcazione, in presenza di due fattispecie aventi chiaramente un comune sostrato economico, correva lungo il tracciato della diversa costruzione normativa (i.e.: qualificazione formale).
Quindi una tassa è tale innanzitutto ove questa qualificazione sia espressamente assegnata dal legislatore ad un’entrata pubblica.
Ove non risulti siffatta qualificazione deve ritenersi che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, abbia optato per un diverso modulo di copertura finanziaria dei costi del servizio pubblico (quello a mezzo delle entrate extratributarie), a meno che non emergano elementi univoci e convergenti delle caratteristiche concrete del nesso tra la prestazione del servizio pubblico e l’obbligazione pecuniaria posta a carico del fruitore del servizio stesso (nesso che può in ipotesi presentarsi come di mera paracommutatività) sì da ricondurre un’entrata pubblica, in ragione appunto delle sue marcate caratteristiche sostanziali, nell’alveo di quelle di natura tributaria piuttosto che tra quelle di natura extratributaria, pur in mancanza di un’espressa qualificazione normativa.
Ciò non esclude però che talora quello che inizialmente era il corrispettivo di un servizio possa aver assunto nel tempo una connotazione tipicamente tributaria, come il canone televisivo (Cass., Sez. Unite, sent. n. 20068 del 18 settembre 2006) ed i contributi spettanti ai consorzi di bonifica (Cass., Sez. Unite, sent. n. 14863 del 28 giugno 2006)».
Alla luce dei principi sopraesposti, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la succitata sentenza n. 20068/2006 ha stabilito che, nel caso delle spese di notificazione degli atti giudiziari, tale essendo nella fattispecie il petitum sostanziale che individua la giurisdizione, manca questa qualificazione di tassa, né sono ravvisabili univoci e convergenti indici di una sostanziale connotazione di natura tributaria, per cui ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario.
La Corte di Cassazione, quindi, ai fini della qualificazione o meno di tributo, conferisce particolare rilievo alla c.d. qualificazione formale da parte del legislatore, salvo determinate condizioni.
Diversamente, la Corte Costituzionale esclude tassativamente questa preliminare condizione.Infatti, la Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 64/2008 (lett. M), precisa: “criteri che, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina tali entrate, consistono nella doverosità della prestazione e nel collegamento di questa alla pubblica spesa, con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante (ex multis: sentenze n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005).
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3) La competenza delle Commissioni Tributarie
Così, trova recente conferma l’orientamento secondo il quale la controversia tra sostituto d’imposta e sostituito, avente ad oggetto la pretesa del primo di rivalersi delle somme versate a titolo di ritenuta d’acconto non detratta dagli importi erogati al secondo, non diversamente da quella promossa dal sostituito nei confronti del sostituto, per pretendere il pagamento anche di quella parte del suo credito che il convenuto abbia trattenuto e versato a titolo di ritenuta d’imposta, rientra nella giurisdizione delle Commissioni tributarie e non del giudice ordinario, posto che, in entrambi i casi, l’indagine sulla legittimità della ritenuta non integra una mera questione pregiudiziale, suscettibile di essere delibata incidentalmente, ma comporta una causa tributaria avente carattere pregiudiziale, la quale deve essere definita, con effetti di giudicato sostanziale, dal giudice cui la relativa cognizione spetta per ragioni di materia in litisconsorzio necessario anche dell’Amministrazione Finanziaria (in tal senso, Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ordinanza n. 22272 del 24 ottobre 2007 e n. 22266 del 24 ottobre 2007, in GT n. 3/2008, pag. 267).Lo smodato allargamento delle competenze del giudice tributario a cui abbiamo assistito negli ultimi anni ha creato il problema della costituzionalità di tale procedura, in relazione al divieto dell’istituzione ex novo di giudici speciali.
Per evitare ciò e, soprattutto per stabilire in modo chiaro e definitivo i limiti di competenza dei giudici tributari, di recente la Corte Costituzionale è intervenuta con le due importanti sentenze già citate:
- la n. 64 del 14 marzo 2008 (in tema di COSAP);
- la n. 130 del 14 maggio 2008 (in tema di lavoro nero).
Questo intervento, inoltre, ha definitivamente risolto un contrasto interpretativo con la Corte di Cassazione, contrasto apertosi negli anni scorsi proprio in tema di processo tributario.
1) Con la prima sentenza (n. 64/2008), nello stabilire che il COSAP è di competenza del giudice ordinario e non delle Commissioni tributarie, la Corte Costituzionale ha precisato che l’eventuale attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversia non avente natura tributaria comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali.
In particolare, il Giudice delle Leggi ha precisato che : «Tale illegittima attribuzione può derivare, direttamente, da una espressa disposizione legislativa che ampli la giurisdizione tributaria a materie non tributarie ovvero, indirettamente, dall’erronea qualificazione di “tributaria” data dal legislatore (o dall’interprete) ad una particolare materia (come avviene, per esempio, allorché si riconducano indebitamente alla materia tributaria prestazioni patrimoniali imposte di natura non tributaria). Per valutare la sussistenza della denunciata violazione dell’art. 102, secondo comma, Cost. occorre accertare, perciò, se la controversia devoluta ai giudici tributari abbia o no effettiva natura tributaria.
E, a tal fine, non si può prescindere dai criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte per qualificare come tributarie le entrare erariali; criteri che, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina tali entrate, consistono nella doverosità della prestazione e nel collegamento di questo alla pubblica spesa con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante (ex multis: sentenze n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005).
Al riguardo, va sottolineato che, ove sia stata accertata la natura non tributaria della materia attribuita alla cognizione dei giudici tributari, si deve affermare l’illegittimità costituzionale di detta attribuzione, né possono addursi in contrario argomenti che non trovano fondamento nell’art. 102, secondo comma, e nella VI disposizione transitoria della Costituzione».
Infatti, «il difetto della natura tributaria della controversia fa necessariamente venir meno il fondamento costituzionale della giurisdizione del giudice tributario, con la conseguenza che l’attribuzione a tale giudice della cognizione della suddetta controversia si risolve inevitabilmente nella creazione, costituzionalmente vietata, di un “nuovo” giudice speciale».
Appunto per questo, la Corte Costituzionale, questa volta in aderenza alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, ha ritenuto illegittima costituzionalmente la competenza dei giudici tributari in materia di COSAP. In particolare, la Cassazione, dopo aver rilevato che il COSAP si applica in via alternativa al tributo denominato “tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche” (TOSAP), ha precisato che detto canone, da un lato, «è stato concepito dal legislatore come un quid ontologicamente diverso, sotto il profilo strettamente giuridico, dal tributo (TOSAP) in luogo del quale può essere applicato» e, dall’altro, «risulta disegnato come corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici».
In definitiva, la Corte non si discosta dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che «per il numero elevato, la sostanziale identità di contenuto e la funzione nomofilattica dell’organo decidente costituiscono diritto vivente, prospettano una ricostruzione plausibile dell’istituto, non in contrasto con i sopra ricordati criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale per individuare le entrate tributarie».
E’ questa una sentenza chiarificatrice sul tema, anche se può lasciare perplessi il riferimento al c.d. “diritto vivente” che, specie nel settore tributario, privo di principi e con una legislazione spesse volte confusionaria e contraddittoria, potrebbe per molti anni manifestarsi non in modo univoco (abbiamo visto dei contrasti persino tra la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione), lasciando l’interprete in una situazione di dubbi e di precarietà.
Spingendosi addirittura sul piano delle esemplificazioni, la Corte Costituzionale, sempre con la citata sentenza n. 64/2008, si premura ora di far rilevare come «non sarebbe sufficiente, al fine di negare lo “snaturamento” della materia attribuita alla giurisdizione tributaria, affermare che le controversie relative ad alcuni particolari canoni, pur non avendo natura tributaria, sono legittimamente attribuite alla cognizione delle Commissioni tributarie per la sola ragione che il fatto generatore delle suddette prestazioni patrimoniali è simile al presupposto che, in passato, avevano avuto alcuni tributi» e come «neppure sarebbe sufficiente addurre mere ragioni di opportunità per giustificare, sul piano costituzionale, la cognizione, da parte dei giudici tributari, di controversie non tributarie riguardanti fattispecie in qualche misura simili a quelle propriamente tributarie».
Scrive opportunamente Glendi (in Corriere Tributario n. 18/2008): «Trattasi, come è chiaro, di indicatori molto puntuali dei quali occorre comunque tener conto per la definizione della giurisprudenza tributaria allo stato costituzionalmente compatibile, sulla base delle leggi vigenti e dell’interpretazione ultimamente fornitane dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, prima, ovviamente, di rapportarvi adeguati parametri a livello di normativa primaria».
Così secondo me, alla luce delle precise indicazioni della Corte Costituzionale, non può certo qualificarsi “tributo” il pagamento del diritto annuale per la licenza di esercizio nel settore dell’imposta di consumo sull’energia elettrica, di cui all’art. 63, comma 3, D.Lgs. n. 504 del 26 ottobre 1995.
2) Con la seconda sentenza (n. 130/2008) la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 546/92 nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria, come le sanzioni in tema di lavoro nero.
A tal proposito, così la Corte giustifica la suddetta illegittimità costituzionale: «Con specifico riguardo alla giurisdizione tributaria, questa Corte ha poi precisato con riguardo a questioni di legittimità analoghe a quelle in esame, che essa “deve ritenersi imprescindibilmente collegata” alla “natura tributaria del rapporto” e che la medesima non può essere ancorata “al solo dato formale e soggettivo, relativo all’ufficio competente ad irrogare la sanzione” (ordinanza n. 34 del 2006)».
Ciò anche dopo le modifiche apportate dall’art. 1, comma 54, della Legge n. 247/2007.
A tal proposito la Corte richiama la precedente sentenza n. 64/2008, in cui si è affermato che l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi natura tributaria comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali (vedi il precedente n. 1).
In definitiva, così conclude sul tema la Corte: «Non c’è dubbio che la lettura che dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 546 del 1992, dà il diritto vivente finisce per attribuire alla giurisdizione tributaria le controversie relative a sanzioni unicamente sulla base del mero criterio soggettivo costituito dalla natura finanziaria dell’organo competente ad irrogarle e, dunque, a prescindere dalla natura tributaria cui tali sanzioni ineriscono. Essa, dunque, si pone in contrasto con l’art. 102, secondo comma, e con la VI disposizione transitoria della Costituzione, risolvendosi nella creazione di un nuovo giudice speciale».
In questo caso, contrariamente all’ipotesi di cui al n. 1, la Corte critica e contesta il c.d. diritto vivente, cui va di contrario avviso, e questo dimostra la necessità di un’organica riforma della giustizia tributaria per dare ai contribuenti ed agli uffici fiscali punti di riferimento chiari e precisi, per evitare inutili e defatiganti contenziosi presso un giudice che, a distanza di anni, può essere dichiarato non competente.
A tal proposito, scrive opportunamente Glendi (in Corriere Tributario n. 18/2008): «Come si va insistentemente predicando ed è, ancora una volta, giustificato dal sopra riscontrato altalenante girovagare dei suoi confini, tra Sezioni Unite, legislatore ordinario e Corte Costituzionale, sono ormai maturi i tempi perché la giurisdizione tributaria venga estratta dall’angusto ricettacolo delle giurisdizioni amministrative speciali e venga elevata a livello costituzionale in posizione paritariamente autonoma rispetto alla giurisdizione ordinaria e alla giurisdizione amministrativa».
In definitiva, con le due succitate sentenze della Corte Costituzionale inizia un nuovo corso giurisprudenziale tendente a comprimere l’estensione della giustizia tributaria, che il legislatore, negli anni scorsi, aveva ampliato anche al fine di una maggiore semplificazione per il cittadino-contribuente nell’adire il giudice tributario, senza dover a lungo interrogarsi se alcune prestazioni patrimoniali fossero imposte, tasse, contributi o canoni.
Inoltre, sull’argomento la disputa dottrinaria è ancora in corso e, oltretutto, su alcune tematiche non è d’accordo neppure la Corte di Cassazione.
Pertanto, se non interverrà quanto prima un’organica e strutturale riforma della giustizia tributaria, alla luce dei principi costituzionali sopra esposti, appaiono ormai a rischio di illegittimità costituzionale le molteplici controversie afferenti ai canoni per lo scarico e la depurazione delle acque reflue; per lo smaltimento dei rifiuti urbani; sulla pubblicità ed altre ancora, soprattutto in tema di finanza locale in vista del futuro federalismo fiscale.
A questo punto, appare non più procrastinabile un deciso ed immediato intervento del legislatore costituente per confermare o meno quell’indirizzo legislativo evolutosi nel tempo, che ha recepito esigenze manifestatesi e maturate nella società, conferendo finalmente alle future e rinnovate Commissioni tributarie una giurisdizione generale sull’intera materia tributaria intesa nel suo complesso, e cioè comprensiva di tutte le varie forme di prelievo monetario dai cittadini operate per soddisfare le prestazioni di servizio pubblico che l’attuale coscienza sociale ha acquisito non più sopprimibile.
In definitiva, non resta che aspettare di vedere le conseguenze delle succitate sentenze costituzionali nei giudizi attualmente pendenti, augurandoci di assistere ad un tempestivo intervento legislativo che vada a rimodulare la portata dell’art. 2 D.Lgs. n. 546 cit. sulla scorta, questa volta, di valutazioni che non travalichino i limiti costituzionali posti a tutela del nostro ordinamento (in tal senso, M. Denaro, in FISCALITAX n. 7/8-2008, 1020-1027).
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