Secondo la Corte di Giustizia UE il datore di lavoro non può porre fine al contratto di lavoro a causa dii una sopravvenuta inidoneità permanente del lavoratore a svolgere i suoi compiti lavorativi , senza avere prima verificato possibili soluzioni ragionevoli per consentire al lavoratore di conservare il posto o aver dimostrato eventualmente che tali soluzioni costituirebbero un onere sproporzionato per l'impresa. Tale eventualità infatti integra una discriminazione diretta della persona disabile anche quando la cessazione deriva da una norma giuridica nazionale. Questa risulta infatti incompatibile con la normative europea.
Il giudizio è stato espresso con la sentenza del 18 gennaio 2024 nella causa C-631/22 riguardante un caso verificatosi in Spagna.
Viene analizzata in particolare la Direttiva 2000/78/CE sulla Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e il divieto di discriminazione fondata sulla disabilità in particolare per un caso di infortunio sul lavoro che ha causato una inidoneità permanente totale e ha portato alla risoluzione del contratto di lavoro.
Nello specifico il caso riguardava dipendente di una impresa spagnola , conducente a tempo pieno di automezzi per la raccolta di rifiuti che aveva subito un infortunio sul lavoro, per il quale è stato dichiarato temporaneamente inabile al lavoro con riconoscimento di un indennizzo forfettario per lesioni permanenti. A seguito della richiesta del lavoratore la ditta lo ha riassegnato ad un posto compatibile con le sue menomazioni fisiche.
A seguito di nuovo appello , l'istituto nazionale del lavoro spagnolo ha poi modificato la dichiarazione di inidoneità come permanente totale e il lavoratore ha ottenuto un’indennità mensile pari al 55% della sua retribuzione giornaliera . La ditta datrice di lavoro ha quindi notificato la risoluzione del contratto di lavoro contro la quale il dipendente ha fatto ricorso.
Il Tribunale del lavoro di Ibiza, ha respinto tale ricorso con la motivazione che il riconoscimento dell’inidoneità permanente totale ad esercitare la sua professione abituale giustificava la cessazione del suo contratto di lavoro, senza che il datore di lavoro fosse vincolato a un obbligo di riassegnazione a un’altra mansione .
La corte di appello ha rinviato il Caso alla Corte di giustizia europea evidenziando la possibile non compatibilità della normativa nazionale con l'art 5 della direttiva 2000/78/ CE in quanto l’accertamento dell’inidoneità permanente totale all’esercizio della professione abituale consente automaticamente la risoluzione del contratto di lavoro, senza che debba essere rispettata alcuna formalità o che sia versato un indennizzo diverso dall’indennità mensile, neppure subordinata al rispetto di alcun obbligo preliminare in termini di «soluzioni ragionevoli», sebbene, nel caso di specie, la fattibilità di un accomodamento fosse stata dimostrata dalla stessa impresa datrice di lavoro.
I giudice del rinvio citava in proposito la sentenza del 10 febbraio 2022, HR Rail (C‑485/20, EU:C:2022:85), dalla quale risulterebbe che il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti appropriati per consentire a una persona disabile di accedere a un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione, a meno che tali provvedimenti non impongano al datore di lavoro un onere sproporzionato.
La corte conclude quindi affermando che "L’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, letto alla luce degli articoli 21 e 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nonché degli articoli 2 e 27 della Convenzione delle Nazioni Unite (::) , deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale in conformità della quale il datore di lavoro può porre fine al contratto di lavoro a motivo dell’inidoneità permanente del lavoratore a svolgere i compiti a lui incombenti in forza di tale contratto, causata dal sopravvenire, nel corso del rapporto di lavoro, di una disabilità, senza che tale datore di lavoro debba prima prevedere o mantenere soluzioni ragionevoli al fine di consentire al lavoratore di conservare il posto di lavoro, né dimostrare, eventualmente, che siffatte soluzioni costituirebbero un onere sproporzionato.
La corte di giustizia europea nel confermare, come anticipato, le conclusioni di tale sentenza chiarisce anche che " La circostanza che, in forza della normativa nazionale di cui trattasi l’inidoneità permanente totale sia riconosciuta su domanda del lavoratore e che gli dia diritto ad una prestazione previdenziale, vale a dire un’indennità mensile, pur conservando la possibilità di svolgere altre funzioni, è irrilevante". Infatti, una siffatta normativa nazionale, in forza della quale un lavoratore disabile è costretto a subire il rischio di perdere il lavoro per poter beneficiare di una prestazione previdenziale, pregiudica l’effetto utile dell’articolo 5 della direttiva 2000/78, che intende garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro. Osserva anche che una normaTiva che assimila una «inidoneità permanente totale», che riguarda solo le funzioni abituali,al decesso di un lavoratore o a una «inidoneità permanente assoluta», a contrasta con l’obiettivo dell’inserimento professionale delle persone con disabilità, di cui all’articolo 26 della Carta.
Viene infine ricordato per quanto riguarda l’argomento presentato dal governo spagnolo secondo il quale lo Stato membro interessato sarebbe l’unico competente ad organizzare il proprio sistema di previdenza sociale e a determinare le condizioni di concessione delle prestazioni , che, nell’esercizio di tale competenza, tale Stato membro deve rispettare il diritto dell’Unione.
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