Il compenso dei professionisti legali (si veda ad esempio il recente articolo Avvocati: per ottenere il compenso è necessario un patto in forma scritta) e l’accertamento induttivo costituiscono argomenti sempre d’attualità.
L’ordinanza numero 24255 della Corte di Cassazione, del 9 settembre 2021, tratta proprio di come queste due questioni interagiscono tra loro.
Sotto l’esame della Corte sono i compensi, non percepiti secondo le scritture contabili, ma idealmente (che non equivale a fiscalmente, per i professionisti che seguono la tassazione per cassa) maturati per effetto del completamento o della cessazione dell’incarico.
L’Agenzia delle Entrate, acquisendo le sentenze da vari uffici giudiziari, aveva constatato che, per una parte di queste, il compenso professionale, nonostante la conclusione dell’incarico, non era stato dichiarato tra i redditi imponibili; e, in conseguenza di ciò, effettuava rettifica analitica induttiva ex articolo 39 comma 1 lettera d del DPR 600/73, grazie al quale l’esistenza di attività non dichiarate può essere desunto sulla base di presunzioni semplici: così, in sede di accertamento, questi compensi sono stati considerati dei ricavi conseguiti e non dichiarati.
Il contribuente, uno studio legale associato, al quale era stato chiesto di giustificare il mancato percepimento degli emolumenti, si trincerava dietro le risultanze della contabilità, ma l’accertamento basato sulle presunzioni semplici prescinde dall’attendibilità della contabilità che, in questo caso, tra l’altro, non era stata neanche contestata.
La Corte di Cassazione, con estrema chiarezza, definisce “legittimo” il metodo, basato sulle presunzioni, utilizzato per individuare “il momento della effettiva percezione del reddito”, precisando che “il corrispettivo della prestazione del professionista legale si debba presumere conseguito quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell'esaurimento o della cessazione dell'incarico professionale”.
Mentre il contribuente “aveva l'onere di dimostrare di non aver percepito alcun reddito, per esempio producendo diffida ad adempiere o richieste di decreto ingiuntivo, o provare l'infruttuosità della esecuzione”.
L’ordinanza mette in chiaro alcuni punti, nel caso specifico per gli avvocati, ma che possono riguardare tutti i professionisti, non tanto in relazione alla modalità di determinazione dei redditi, quanto, piuttosto, alle loro modalità di accertamento.
Che un professionista debba assoggettare a imposta il reddito nel momento in cui questo viene incassato, secondo il principio della cassa, non è in discussione; ma, al completamento della prestazione o alla fine dell’incarico, se il professionista non si è attivato per riscuotere il compenso o non può dimostrare di averlo fatto, in sede di contenzioso, l’amministrazione finanziaria può portare a tassazione questi presunti mancati incassi qualificandoli come redditi percepiti e non dichiarati.
L’ordinanza fondamentalmente si basa sulla constatazione teorica che, da un punto di vista logico, aspettarsi che il professionista, al termine di un lavoro o di un incarico, cerchi di riscuotere il corrispettivo a cui ha diritto, rappresenti una presunzione legittima; dalla quale questi può sfuggire solo dimostrando “la esistenza di fattori che avevano impedito o che comunque erano stati idonei ad impedire l'incasso dei compensi”.
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