Accantonata l’incomunicabilità dell’amministrazione Trump, con la nuova amministrazione Biden cominciano a prendere forma i primi negoziati internazionali su una questione di cui in Europa si discute da oltre trent’anni, la tassazione unitaria delle imprese sovranazionali, senza che si siano mai raggiunti risultati concreti.
Al G7 del 5 giugno 2021, avvenuto a Londra, i ministri delle finanze dei paesi economicamente più grandi hanno trovato un primo importante accordo sull’argomento, basato su due punti fondamentali:
In tutta evidenza, l’accordo vuole limitare la competizione fiscale tra Stati, risultato che non si è ancora riuscito a raggiungere neanche all’interno della stessa Unione Europea, e portare a tassazione i redditi dei giganti del web in parte anche sul luogo di realizzazione dei loro affari.
Di conseguenza saranno abolite le molteplici web tax che molti paesi europei hanno approvato negli ultimi anni senza coordinamento tra loro e con scarso successo in termini d’efficacia.
Quello della tassazione delle multinazionali prima, e quello della tassazione delle multinazionali del web dopo, è un problema incastonato nel sistema economico mondiale da decenni, divenuto più urgente da quando la globalizzazione finanziaria ha permesso, a questa tipologia di aziende, di abbattere, fino quasi ad azzerare in alcuni casi, il carico fiscale sfruttando le divergenze normative dei diversi Stati, oltre che localizzando i redditi in paesi che offrono una fiscalità vantaggiosa.
Il perno della questione non è tanto il fatto che le imprese di questa dimensione siano soggette ad una aliquota effettiva piuttosto bassa, perché si potrebbe anche discutere del fatto che la pressione fiscale nei paesi occidentali sia talvolta eccessiva; piuttosto il problema è che le imprese di minore dimensione, quelle che rimangono richiuse nel perimetro degli Stati nazionali, di solito sono colpite da una pressione fiscale di molto superiore a quella delle multinazionali. Già che le imprese sovranazionali godono del vantaggio competitivo costituito dalla possibilità di sfruttare le economie di scala e la delocalizzazione della produzione, se a ciò si unisce un consistente vantaggio fiscale, il contesto è distorsivo della concorrenza, in quanto la competizione è effettivamente impossibile.
L’accordo raggiunto, che con ogni probabilità sarà ratificato anche dal prossimo G20 di luglio che avverrà a Venezia, costituisce un primo passo in una strada che appare molto ripida, in quanto, affinché la tassazione di queste imprese possa effettivamente realizzarsi, sarà necessario raggiungere un accordo ben più elaborato di quello rappresentato da alcune aliquote.
La questione è che l’ammontare di una imposta, in termini effettivi, è il risultato di due variabili: l’aliquota nominale applicata alla base imponibile. Anche se questo accordo fisserà una aliquota nominale unica, uguale per tutti gli Stati, la mancanza di regole comuni sulla determinazione della base imponibile su cui applicare l’aliquota renderà l’azione sterile, potendo, i paesi che vorranno effettuare politiche di competizione fiscale, mantenere l’aliquota nominale fissa e agire sulle modalità di determinazione della base imponibile.
Su questa ipotesi un po’ di scetticismo può nascere dal fatto che in Europa non si è ancora riusciti a consolidare una base imponibile comune per i redditi delle società, nonostante l’UE rappresenti una unione federale; e, si può presumere, un accordo in tal senso a livello globale non sarà più facile.
Ti potrebbero interessare: