La Società tra professionisti, in abbreviato STP, rappresenta una modalità d’esercizio collegiale di attività professionali ordinistiche, introdotta nell’ordinamento italiano nel 2011 dall’articolo 10 della Legge 183/11, ma che finora non ha avuto grande diffusione.
Il Legislatore ha introdotto uno strumento ibrido, a metà tra impresa e professionista, senza sostenerlo con un adeguato corredo normativo specifico.
La sentenza della Corte di Cassazione n.7407 del 17 marzo 2021 si occupa di un aspetto cardine per il corretto inquadramento fiscale delle STP: se queste producano reddito di impresa o di lavoro autonomo; differenza in nessun modo trascurabile.
Che la questione sia tutt’altro che scontata lo dimostra la lunga sequela di pareri di prassi sul tema, che nel tempo si è comunque consolidata sull’assimilare il reddito prodotto dalle STP a quello d’impresa.
La sentenza della suprema corte giunge a conclusioni diverse; ma lo fa non senza mettere sul piatto delle motivazioni il processo logico che l’ha condotta a fare questa valutazione.
L’inequivocabile punto di partenza è la constatazione che non esistono espresse previsioni normative che qualifichino il reddito prodotto da una Società tra professionisti; motivo per cui sarà necessario inserirlo all’interno delle norme generali che regolano il sistema, e civilistico e fiscale.
La corte ci spiega come il punto da cui osserviamo la questione possa cambiare radicalmente a seconda dell’aspetto a cui decidiamo di dare maggiore rilevanza: il problema, che è poi la peculiarità di questo strumento ibrido, è che basandoci sul soggetto che produce il reddito (una società), questo dovrebbe essere inequivocabilmente qualificato come reddito d’impresa, ma basandoci sull’effettiva attività svolta (professionale e ordinistica), questa dovrebbe essere ricondotta, altrettanto inequivocabilmente, al reddito di lavoro autonomo. La domanda, secondo la corte, è se si deve dare priorità all’elemento soggettivo (la forma societaria) o a quello oggettivo (l’attività svolta). Alla forma o alla sostanza.
La soluzione, secondo i giudici di legittimità, si deve trovare nelle pieghe delle regole generali che regolano il nostro ordinamento.
In mancanza di una previsione specifica nella disciplina speciale di secondo grado, quella fiscale, che deroga la normativa generale di primo grado, quella civile, la risposta andrà ricercata nella seconda, nel Codice civile. E lì, l’articolo 2238 prevede che l’attività dei professionisti intellettuali possa avere natura commerciale e rientrare nel perimetro dell’impresa solo quando costituiscono “elemento di un’attività organizzata in forma di impresa”.
Di conseguenza, secondo la Corte di Cassazione “la qualificazione del reddito di una società tra professionisti, come reddito di impresa, deve farsi dipendere dalla concreta configurazione della società, ed in particolare dalla presenza all’interno di essa (da accertarsi, dunque, caso per caso), di un autonomo profilo organizzativo, rispetto al lavoro professionale, capace di spersonalizzare l’attività svolta”.
In definitiva, saranno le caratteristiche effettive dell’attività svolta dalla STP a stabilire, caso per caso, se questo reddito debba essere ricondotto all’impresa o al lavoro autonomo. E, più precisamente, “quando prevalga il carattere dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale, il professionista […] acquista la qualità di imprenditore”; conclusione, nota la corte, coerente con il perimetro che delimita l’imponibilità ai fini Irap del reddito da lavoro autonomo, il quale, in base alla sentenza del 21 maggio 2001 numero 156 della Corte Costituzionale, è attratta all’Imposta regionale sulle attività produttive solo in presenza d’effettiva organizzazione autonoma; effettività non richiesta all’imprenditore, dato che l’elemento organizzativo è implicito e costitutivo alla nozione di impresa.
Non sono mancate esternazioni di perplessità sulle conclusioni avanzate da questa sentenza.
La più solida delle critiche si basa sul fatto che l’articolo 81 e l’articolo 6 comma 3 del TUIR attraggono al reddito d’impresa i redditi in ogni caso prodotti dalle società, e questo è indubbiamente vero, ma il rilievo si esaurisce già nelle premesse del procedimento logico che ha portato alle conclusioni della sentenza, e cioè nel fatto che una STP soggettivamente è una società ma oggettivamente esercita una attività professionale; e la corte ha deciso di dare priorità al profilo oggettivo, precisando però, per coerenza con il Codice civile, che, se l’attività esercitata è in prevalenza professionale, il reddito prodotto è di lavoro autonomo, se sono presenti profili di organizzazione, di lavoro (non professionale) e di capitale, sufficienti a superare questa prevalenza, il reddito è d’impresa.
Sono delle conclusioni coerenti con il principio di prevalenza della sostanza sulla forma, che sempre dovrebbe regolare il contesto interpretativo delle più diverse situazioni nel sistema italiano; il fatto, evidente, che l’applicazione di questo principio, creando incertezza, non aiuterà la diffusione di uno strumento già scarsamente utilizzato, non è colpa né del principio né di chi lo applica, ma di una normativa che non delinea con fermezza le fondamentali regole di funzionamento della fattispecie.
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