Partendo dalla constatazione che il DPR 633/1972, il cosiddetto Testo Unico IVA, è un documento complesso e non privo di insidie, nel corso del tempo si è instaurata l’abitudine, da parte di chi emette la fattura, nel caso in cui sia dubbio l’inquadramento corretto da applicare, di accogliere l’ipotesi più favorevole al fisco per evitare contestazioni.
Se, in un caso del genere, per chi la fattura la emette, è probabile che in effetti contestazioni non ve ne siano, per contro la cosa non potrà considerarsi ugualmente pacifica per chi, invece, dopo aver versato l’imposta (pagando la fattura), vorrà anche portala in detrazione.
La Sentenza numero 24289 della quinta sezione civile della Corte di Cassazione, pubblicata il 3 novembre 2020, entra nel merito di questa delicata questione enunciando anche un principio di diritto.
Non interessando in questa sede di entrare nel fatto specifico del contendere, ci basti sapere che la sentenza prende in esame due fattispecie diverse: della detraibilità dell’IVA erroneamente addebitata in rivalsa per operazioni non imponibili, e della detraibilità dell’IVA erroneamente addebitata utilizzando una aliquota maggiore rispetto a quella dovuta (ma per operazioni comunque soggette a IVA). Le operazioni esenti dall’imposta, anche avendo una aliquota pari a zero, sono comunque operazioni che rientrano nel perimetro dell’imposta, motivo per cui, anche se la sentenza non le nomina, è presumibile che possano rientrare nella seconda fattispecie.
La sentenza, che per le motivazioni richiama fonti europee di diritto e di giurisprudenza, parte dal principio che è vero che il diritto alla detrazione dell’IVA, come regola generale, è connesso all’effettiva realizzazione di una operazione imponibile, ma questa non si realizza attraverso la sola esposizione dell’imposta sulla fattura, perché deve comunque essere realizzata l’effettiva imponibilità dell’operazione (che dovrà, quindi, anche essere considerata imponibile ai fini IVA dal DPR 633/1972). La corte, in questa sede, considera minoritario, e di fatto lo rigetta, l’orientamento (comunque supportato da valida giurisprudenza) secondo il quale l’IVA erroneamente addebitata possa essere comunque detratta da colui che riceve la fattura.
Partendo da queste considerazioni, con la sentenza è emanato il seguente Principio di diritto: “in tema di IVA, l'imposta erroneamente corrisposta in relazione ad un'operazione non imponibile non può essere portata in detrazione dal cessionario, nemmeno a seguito della modifica apportata dall'art. 1, comma 935, della L. n. 205 del 2017 all'art. 6, comma 6, del D.Lgs. n. 471 del 1997. Invero, indipendentemente dalla sua efficacia retroattiva prevista dall'art. 6, comma 3 bis, del D.L. n. 34 del 2019, la menzionata disposizione si applica unicamente alla diversa ipotesi in cui, a seguito di un'operazione imponibile, l’IVA sia stata erroneamente corrisposta sulla base di un'aliquota maggiore rispetto a quella effettivamente dovuta”.
La modifica apportata dall'articolo 1 comma 935 della Legge n.205/2017 (all'articolo 6 comma 6 del Decreto Legislativo n.471/1997), si ricorda, nel caso in cui sia applicata una imposta superiore a quella dovuta, lascia al cessionario o al committente il diritto di detrarre l’IVA erroneamente applicata, ma lo punisce con una sanzione amministrativa compresa tra 250 euro e 10.000 euro.
Quindi, riassumendo, il Principio di diritto emanato dalla sopra citata sentenza della Corte di Cassazione, che si basa sull’orientamento oggi prevalente della giurisprudenza, non solo italiana:
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