La Corte di Cassazione, con la Sentenza 16998 del 25 giugno 2019, ha statuito che al lavoratore spettano le retribuzioni arretrate se le sue dimissioni vengono annullate per temporanea incapacità di intendere e volere, con ripristino del rapporto lavorativo, dal momento della sua domanda di giudizio. La sentenza si sofferma in particolare sulla data di decorrenza del diritto al pagamento delle retribuzioni non percepite , in quanto le posizioni della giurisprudenza non sono univoche.
Il caso riguardava un lavoratore che chiedeva l'annullamento delle dimissioni per transitoria totale incapacità di intendere e di volere (atto di dimissioni viziato ex art. 428 cod. civ.). che il Tribunale di Marsala rigettava. In appello la Corte di Palermo riformava la sentenza, annullando le dimissioni e condannando l'Ente a corrispondere al lavoratore con decorrenza dalla data della domanda giudiziale, una somma pari alla differenza tra il trattamento pensionistico percepito e la retribuzione che gli sarebbe mensilmente spettata sulla base della sua qualifica di Direttore Agrario Coordinatore.
La Cassazione rigetta il ricorso dell'Ente datore di lavoro. Nel merito , con riferimento alle dimissioni, ricorda che " è pacifico nella giurisprudenza di legittimità che la pronuncia giudiziale di annullamento per la sua efficacia costitutiva comporta il ripristino del rapporto, attribuendo al dimissionario la posizione giuridica di cui era in precedenza titolare".
Piu articolata invece la decisione sul punto delle conseguenze dell'annullamento sul piano economico. In particolare vengono ricordate le due posizioni della giurisprudenza di legittimità:
In questo caso il Collegio ritiene di aderire a quest'ultimo principio in quanto, afferma " la soluzione che riconduce la decorrenza della retribuzione alla data della sentenza sarebbe del tutto iniqua per il lavoratore perche fa pesare sulla parte che, a ragione, domanda giustizia, i tempi della risposta giudiziaria - tra l'altro in violazione del principio costituzionale (art. 111 Cost., comma 1) del c.d. giusto processo" .
In altre parole la durata del processo non può andare a discapito della parte che ha ragione o meglio "non può pregiudicare la parte che si vedrà riconoscere la propria ragione" , come affermato anche dalla Corte costituzionale 23 giugno 1994, n. 253.
La sentenza quindi rigetta il ricorso dell'Ente, confermando la decisione delle Corte d'Appello di Palermo.
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