In questi giorni in Parlamento sono in corso le audizioni da parte degli stakeholder per esaminare la bozza del decreto di conversione per l’adeguamento della legislazione nazionale al Regolamento (UE) 2016/679, relativo alla protezione delle persone fisiche, con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati.
Tra gli argomenti che hanno incontrato maggiori critiche da parte delle associazioni di categoria c’è l’istituto della data retention, per il quale la Legge Europea 2017, Disposizioni per l'adempimento degli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea, entrata in vigore il 12 dicembre 2017 - all’art. 24, ha introdotto – in capo agli operatori delle telecomunicazioni - l’obbligo di conservare i dati del traffico telematico e telefonico per un periodo di 72 mesi, per finalità di accertamento e repressione dei reati.
E’ bene ricordare che su tale questione il legislatore comunitario aveva riconosciuto in capo agli Stati membri la facoltà di porre un termine di conservazione, tenendo conto delle singole specificità, soprattutto sul versante della lotta al terrorismo.
Da più parti è stato fatto notare come il termine stabilito dall’Italia non ha analoghi riscontri nelle legislazioni nazionali degli altri Stati membri che si sono attestati su una media di 24 mesi, mentre un Paese coma la Russia, che certo non svetta tra i Paesi maggiormente attenti alle tutele civili dei propri cittadini, ha fissato il termine di conservazione a tre anni.
Per dare una idea dei numeri coinvolti, secondo i dati forniti dal Garante, quotidianamente vengono conservati dagli operatori quasi 5 miliardi di dati di traffico telematico.
Le perplessità di tale scelta adottata dal legislatore hanno origine da una serie di considerazioni riconducibili, sostanzialmente, a due rilievi:
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