La Cassazione civile, sez. lav., con sentenza del 25 giugno 2013, n. 15926 ha precisato che, in tema di sanzioni disciplinari nell'ambito del rapporto di lavoro, il principio di tassatività degli illeciti non può essere inteso nel senso rigoroso, imposto per gli illeciti penali dall'art. 25, comma 2 della Costituzione, dovendosi, invece, distinguere tra gli illeciti relativi alla violazione di prescrizioni strettamente attinenti all'organizzazione aziendale, per lo più ignote alla collettività e quindi conoscibili solo se espressamente previste ed inserite, perciò, nel ed. "codice disciplinare" da affiggere ai sensi dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970, e quelli costituiti da comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell'impresa o dei lavoratori, per i quali non è necessaria la specifica inclusione nello stesso codice disciplinare, poiché, in questi ultimi casi che possono legittimare il recesso del datore di lavoro per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, il potere sanzionatorio deriva direttamente dalla legge.
Nella specie il comportamento addebitato a giustificazione del licenziamento del lavoratore - diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata - non rientra tra i comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell'impresa o dei lavoratori, e per esso avrebbe dovuto essere rispettato l'onere di affissione del codice disciplinare e della riconducibilità allo stesso della condotta oggetto della contestazione, mentre non risulta che ciò sia avvenuto, anzi, dalla stessa impostazione della sentenza impugnata si desume che la Corte territoriale ha ritenuto la fattispecie sottratta all'anzidetto incombente.