Con l'ordinanza n 27548/2024 la Cassazione statuisce che le operazioni fatturate possono essere al contempo qualificate come soggettivamente e oggettivamente inesistenti, in merito alla parte relativa al costo alterato grazie a contratti d’appalto non genuini.
Vediamo il caso di specie e le motivazioni della pronuncia della Suprema Corte.
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La Cassazione ha rigettato il ricorso in quanto ha avvalorato la qualificazione di operazioni soggettivamente inesistenti in riferimento alla somministrazione illecita di manodopera, posta in essere in violazione del DLgs n. 276/2003.
In diverse occasioni la stessa Corte di cassazione ha diversamente qualificato le operazioni sottese ai contratti di appalto “non genuini” costituiti al fine di mascherare la somministrazione di lavoro.
L’articolo 29 del Dlgs n. 276/2003, fornisce una definizione del contratto di appalto proprio allo scopo di distinguere le due figure e di evitare abusi.
L’elemento caratterizzante del contratto di appalto “genuino”, è quello dell’organizzazione di mezzi/persone a carico dell’appaltatore oltre alla gestione del rischio sempre a caricodello stesso.
La Cassazione nella ordinanza in questione ha qualificato le operazioni indicate nelle fatture come:
Nel caso di specie la società ricorrente si era avvalsa dell’esternalizzazione dei lavoratori che tuttavia, da alcuni elementi messi in luce in sede di verifica era stata riqualificata quale fittizia esternalizzazione.
Tale outsourcing nasceva al solo scopo di inserire in contabilità fatture provenienti dalle società false fornitrici e, quindi di trarre dall’operazione indebita vantaggi fiscali.
In particolare, il legale rappresentante aveva costituito due consorzi amministrati da sue persone di fiducia “con lo scopo di creare un filtro tra la beneficiaria della frode e le varie cooperative che eseguivano materialmente i lavori”.
La ricostruzione dei fatti ha condotto sia i giudici di merito che quelli di legittimità a ritenere operante un’interposizione all’interno della catena commerciale volta a frodare il fisco, attraverso salti d’imposta fra i vari soggetti della catena.
La partecipazione attiva del legale rappresentante della societàè considerata una presunzione grave e precisa della sua consapevolezza della frode, essendo pressoché impossibile fornire la prova contraria della buona fede, prova necessaria al fine di dimostrare l’estraneità alla frode fiscale e a escludere la soggettiva inesistenza.
Pertanto anche la Cassazione ha rigettato il ricorso della società condannandola alle spese.