La sentenza n. 39659 della Corte di Cassazione, depositata il 29 ottobre 2024, affronta il caso di un direttore di punto vendita commerciale, condannato in primo grado dal Tribunale di La Spezia il 27 marzo 2024.
La condanna riguardava il reato previsto dall’art. 4, comma 7, della legge n. 628 del 1961, per aver fornito informazioni volutamente errate e incomplete all’Ispettorato del Lavoro riguardo ai dipendenti di una ditta esterna. Tuttavia, la Cassazione non ha confermato la condanna rilevando una serie di incoerenze nella motivazione della sentenza di primo grado, evidenziando la necessità di distinguere chiaramente tra dolo e colpa nella valutazione della responsabilità dell’imputato.
Ecco nello specifico il caso concreto e l'analisi dei giudici.
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Nel caso analizzato, l'imputato, Sc.Jo., era accusato di aver fornito informazioni errate e incomplete all'Ispettorato del Lavoro, comportamento considerato doloso in quanto l’accusa sosteneva che egli avesse agito "scientemente". L’elemento doloso è essenziale per configurare il reato previsto dall’art. 4, comma 7, della legge n. 628 del 1961, il quale punisce chi fornisce informazioni non veritiere in risposta a richieste ufficiali delle autorità di controllo.
L'accusa sosteneva che Sc.Jo., nella sua posizione di direttore, avesse deliberatamente omesso o falsificato informazioni sul personale della società Fu.Su. Srl, in particolare i dipendenti Mo.Gi. e Ma.Ma., che avevano prestato servizio presso il punto vendita da lui diretto.
Nello specifico, Sc.Jo. avrebbe comunicato agli ispettori INPS che solo un lavoratore della Fu.Su. Srl fosse effettivamente operativo nel punto vendita, nonostante le evidenze contrarie. Questo comportamento, ritenuto “reticente” dall’accusa, è stato interpretato come una volontaria omessa comunicazione di fatti che erano rilevanti per l'indagine ispettiva in corso.
Il Tribunale di La Spezia, pur riconoscendo l’erroneità e incompletezza delle informazioni fornite, ha attribuito la colpevolezza di Sc.Jo. alla sua negligenza grave piuttosto che a una reale volontà dolosa. Ha sostenuto che l’imputato avrebbe dovuto verificare accuratamente i dati presso l’ufficio personale dell'azienda prima di rispondere, concludendo che la sua mancata diligenza costituisse sufficiente base per la condanna.
La decisione si è quindi basata su una visione dell’atto come frutto di disattenzione o trascuratezza piuttosto che di intenzione ingannevole.
La Corte di Cassazione ha contestato l' impostazione del tribunale per alcuni motivi chiave: