In origine la web tax italiana, chiamata Digital Service Tax (o meglio Imposta sui Servizi Digitali), era nata con l’obiettivo di portare a tassazione una parte dei proventi realizzati in Italia da parte delle cosiddette Big tech, le multinazionali operanti su internet, le quali, grazie alle loro capacità di pianificazione fiscale, secondo buona parte dell’opinione pubblica, di solito non pagano una quantità sufficiente di imposte nei territori in cui i profitti sono effettivamente realizzati.
Così, per legare il versamento delle imposte alla territorialità dei ricavi, è nata la web tax italiana, una imposta che si applica non agli utili, ma ai ricavi realizzati nel territorio dello stato italiano dalla vendita di servizi digitali, nella misura del 3% da versarsi all’erario.
La discriminante fondamentale di questa impostazione era la previsione che l’imposta doveva applicarsi solo alle imprese che realizzavano almeno 750 milioni di ricavi globali di cui almeno 5,5 milioni derivanti dalle vendita di servizi digitali in Italia. Il fatto di vincolare l’applicazione dell’imposta a un limite di ricavi di una certa consistenza, limitava l’applicazione dell’imposta se non alle sole big tech, almeno alle aziende di maggiore dimensione.
La limitazione applicativa costituiva un elemento fondamentale della logica dell’imposta, in quanto questa tassazione, oltre a fare l’interesse dell’erario, doveva servire anche a mitigare una distorsione del mercato, dato che le imprese di maggiore dimensione, in questo settore, grazie alle loro capacità di pianificazione fiscale, spesso godono di un vantaggio competitivo rispetto a quelle di minore dimensione.
Però una piccola ma fondamentale modifica alla normativa di riferimento, prevista dalla bozza di Legge di bilancio, rischia di cambiare radicalmente questo paradigma, invertendolo, a svantaggio delle imprese di minore dimensione.
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Il comma 1 dell’articolo 4 della bozza di Legge di bilancio 2025, modificando il comma 36 dell’articolo 1 della Legge 145/2018, semplicemente elimina il limite di ricavi all’applicazione della web tax, la quale, così, diviene una imposta sui ricavi a cui sono soggette tutte le imprese operanti nella vendita di servizi digitali attraverso internet.
Con decorrenza a partire da gennaio 2026.
La differenza è sostanziale perché tutte le imprese, anche le più piccole, e persino le start up ancora in perdita, che vorranno vendere servizi digitali in Italia, dovranno versare una imposta del 3% sui ricavi delle vendite.
In questo modo la nuova versione della web tax, che nasceva per ridurre il vantaggio competitivo delle multinazionali dei servizi digitali e costruire un ecosistema più competitivo, rischia di perdere di vista il suo obiettivo originario e di offrire un vantaggio competitivo proprio alle big tech.
Infatti una imposta sui ricavi, che prescinde dalla realizzazione di utili, risulterà più sostenibile per le imprese molto strutturate, possibilmente con un carico fiscale più tollerabile, grazie alle loro capacità di pianificazione fiscale. A svantaggio delle imprese di minore dimensione operanti solo in Italia e delle start up, che nelle fasi iniziali della loro vita presentano un equilibrio finanziario piuttosto precario.
Per un approfondimento sulle modalità operative di applicazione della web tax è possibile leggere l’articolo Web Tax al via: pubblicato il provvedimento con le regole operative.