Il comma 3 dell'art. 62-sexies D.L. n. 331/93, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 427 del 29/10/1993, dispone che gli studi di settore costituiscono il presupposto per l'accertamento in base all'art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. 600/73.
Lo stesso art. 62-sexies, comma 3, cit., inoltre, richiede espressamente, per legittimare l'accertamento, che si verifichi una grave incongruenza tra i ricavi od i compensi dichiarati dal contribuente e quelli desumibili "dagli " studi di settore.
Se il legislatore avesse voluto attribuire a questi ultimi valore di presunzione legale relativa, avrebbe potuto semplicemente stabilire che gli accertamenti possono essere fondati "sugli" studi di settore. Il legislatore, pertanto, non ha ritenuto sufficiente il risultato degli studi di settore come fatto noto per determinare acriticamente i risultati conseguiti dal contribuente, ma ha richiesto ulteriormente la presenza di "gravi incongruenze" tra questi ultimi e gli studi di settore.
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La grave incongruenza non può affatto essere rappresentata dallo stesso scostamento rispetto agli studi di settore, come sostenuto dall'Amministrazione Finanziaria, la quale ritiene che la gravità dell'incongruenza debba assumersi nel senso che è tale per il solo fatto che si verifica semplicemente un disallineamento con i valori risultanti dallo studio e, quindi, che i maggiori ricavi risultanti dallo studio rappresentano sempre una incongruenza di per sé grave .
Il solo scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli derivanti dall'applicazione degli studi di settore non costituisce di per sé la grave incongruenza ma legittima semplicemente l'Ufficio ad effettuare l'accertamento analitico-induttivo di cui all'art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600/73. Non può, pertanto, essere condivisa la posizione assunta, in tal senso, dall'Amministrazione Finanziaria.
L'Agenzia delle Entrate, infatti, con la Circolare n. 58/E del 27/06/2002, ha affermato che l'importo determinato in base agli studi di settore ha il valore di presunzione relativa e, in presenza delle condizioni richieste dall'art. 10 della Legge n. 146/98 (con il quale, secondo l'Agenzia, il legislatore sarebbe "nuovamente intervenuto al fine di disciplinare in modo dettagliato modalità e regole per l'effettuazione degli accertamenti basati sugli studi di settore", modificando profondamente il quadro normativo di riferimento), può essere, senz'altro, posto a base di eventuali avvisi di accertamento, senza che gli uffici siano tenuti a fornire altre dimostrazioni in ordine alla motivazione della loro pretesa.
L'Agenzia delle Entrate, inoltre, richiama, a sostegno della propria tesi, la sentenza dalla Corte di Cassazione n. 2891 del 27/02/2002 . Si legge, infatti, nella Circolare n. 58/E citata: "Coerentemente a quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione, con sentenza della Sezione Tributaria n. 2891 del 27 febbraio 2002, la piena legittimità della utilizzazione di ragionamenti presuntivi, nell'ambito degli accertamenti analitico-presuntivi di cui all'articolo 39, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 600 del 1973, posta a sostegno della conclusione che non vanno fornite altre dimostrazioni, trova conferma nella evoluzione legislativa che si è avuta a partire dal 1985. Citando nel ragionamento anche gli studi di settore, la Corte di Cassazione afferma, inoltre, che la predetta evoluzione legislativa "ha confermato sempre di più la possibilità che l'Amministrazione utilizzi strumenti presuntivi legittimati dalla prassi e valutati già in sede preventiva a livello generale". In tale contesto - si legge sempre nella Circolare - "può determinarsi una situazione probatoria che investe anche la quantità dei valori ottenuti sulla base delle presunzioni medesime" ed il contribuente ha "l'onere di attivarsi e dimostrare o l'impossibilità di utilizzare le presunzioni in quella fattispecie o l'inaffidabilità del risultato ottenuto attraverso le presunzioni".
La posizione dell'Agenzia delle Entrate deve, però, essere criticata. Innanzitutto, perché la Corte di Cassazione, nella stessa sentenza n. 2891/2002, citata dall'Agenzia nella Circolare n. 58/E, afferma: " È l'art. 39, comma 1, lett. d), a consentire, sulla base della disamina della contabilità operata dall'ufficio, di ricostruire l'esistenza di attività non dichiarate attraverso presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti; e questo valore possono assumere, se confortate da altri indizi , le difformità delle percentuali applicate in concreto rispetto a quelle mediamente riscontrate nel settore di appartenenza, emergenti da studi di settore, quando vi sia uno scostamento che renda del tutto non credibile il risultato della dichiarazione".
La Suprema Corte , pertanto, ha chiarito, in sostanza, che la mera difformità delle percentuali di ricarico applicate, rispetto a quelle emergenti da studi di settore, non legittima un accertamento analitico-induttivo, ma occorre che le risultanze degli studi di settore siano "confortate da altri indizi ".
Inoltre, l'art. 10 della Legge n. 146/98 non ha assolutamente modificato il quadro normativo di riferimento, dal momento che, disciplinando le "modalità di attuazione degli studi di settore", altro non è che una semplice norma di attuazione delle disposizioni contenute nell' art. 62-sexies del D.L. n. 331/93 , il quale è e rimane l'unica norma di riferimento in tema di accertamento da studi di settore e ne condiziona l'impiego, in sede di accertamento, al riscontro di una " grave incongruenza tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili "dagli studi di settore". L'art. 10 cit. non incide in alcun modo sull'operatività di tale requisito indefettibile , anche in forza del rinvio agli "accertamenti basati sugli studi di settore di cui all'art. 62-sexies", che presuppone la volontà del legislatore di richiamare l'intero ambito di operatività di tale norma, comprese le condizioni in essa contenute.
Presupposto immancabile per procedere ad un accertamento analitico-induttivo fondato sugli studi di settore è, pertanto, soltanto la sussistenza di una grave incongruenza tra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dall'applicazione degli studi; grave incongruenza che deve sussistere ancor prima di procedere all'accertamento e che l'Ufficio è comunque tenuto a dimostrare e ad indicare nel proprio accertamento, il quale non può essere, quindi, fondato esclusivamente sulle risultanze degli studi di settore, pena l'illegittimità dello stesso per violazione dell'art. 62-sexies D.L. n. 331/1993. La valutazione della ricorrenza delle condizioni legittimanti l'accertamento (in questo caso, la "grave incongruenza ") va eseguita prima di procedere allo stesso , non potendosene affermare la legittimità con una valutazione ex post (tesi che ho sostenuto al Convegno Nazionale Tributario sugli Studi di settore tenutosi a Siracusa il 05/05/2006 ed organizzato dal Commercialista Telematico; i relativi atti del convegno sono pubblicati on-line dalla stessa rivista).
Inoltre, un avviso di accertamento emesso dall'Ufficio solo sulla base del predetto scostamento, senza la motivazione circa i presupposti che hanno legittimato l'Ufficio a procedere all'accertamento (quindi, la gravità dello scostamento), sarebbe del tutto carente di motivazione , stante il disposto dell'art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (Legge 27/07/2000, n. 212), in base al quale tutti gli atti dell'Amministrazione Finanziaria devono essere motivati , indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'Amministrazione stessa.
L'incongruenza
Infatti, quando si legge che gli accertamenti di cui agli artt. 39, co. 1, lett. d), del D.P.R. n. 600/73 e 54 del D.P.R. n. 633/72 "possono essere fondati anche sull'esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili " dagli studi di settore ", significa che la legge ha inteso solo individuare una particolare "fattispecie" suscettibile di accertamento analitico - induttivo, fermi restando le cautele ed i presupposti della citata lett. d) del primo comma dell\'art. 39, del D.P.R. n. 600/73 e dell'art. 54 del decreto IVA. Pertanto, le gravi incongruenze rispetto ai risultati degli studi di settore, divergenti rispetto a quelli dichiarati, vanno considerate solo come causa che consente all'Amministrazione di superare i risultati contabili , ma non anche come quantum imponibile .
In altri termini, le divergenze (ipotizzate) tra risultati contabili e risultati dello studio di settore non autorizzano l'ufficio finanziario ad accertare a carico del contribuente un imponibile pari al risultato dell'elaborazione statistica ma, viceversa, autorizzano l'Ufficio (solo) ad adottare i criteri di accertamento indicati nella predetta lettera d), con l'obbligo di confrontare (e supportare) il risultato dello studio con presunzioni gravi, precise e concordanti , nella considerazione che lo studio non esprime ricavi/compensi "effettivi" ma solo "ragionevoli" in condizioni ordinarie.
Ultimamente, i suddetti concetti sono stati ben chiariti ed applicati dalla Corte di Cassazione " Sez. Tributaria " con la sentenza n. 9449 del 21 aprile 2006 che, pur accogliendo il ricorso dell'Amministrazione Finanziaria, ha censurato l'apodittica sentenza dei Giudici di merito che, pur in presenza di una dimostrazione da parte del Fisco di " gravi incongruenze " (società che, con un volume d'affari per l'anno 1989 di £. 1.500.000.000, aveva corrisposto a due dipendenti £. 60.000.000 e dichiarato un reddito irrisorio di £. 5.482.000) non avevano minimamente spiegato le ragioni dell\'annullamento dell'atto impugnato.
Questo significa che se l'ufficio intende utilizzare gli studi di settore deve, necessariamente e preliminarmente, accertare e motivare le " gravi incongruenze ", pena la nullità procedurale dell'atto stesso e, di converso, i Giudici devono motivare adeguatamente sul punto, logicamente se c'è la specifica contestazione.
Infine, non sono assolutamente d'accordo con la tesi di Longobardi e Pasquale , espressa nell'articolo "Disposizioni mirate per recuperare gettito" apparso in "Il Sole 24 Ore" di martedì 25 luglio 2006, che auspicano un'abrogazione totale del citato art. 62-sexies, comma 3, per facilitare l'attività accertatrice dell'Ufficio.
Innanzitutto, bisogna smetterla con l'atavico vizio fiscale di abrogare o modificare in peius ex post le norme a tutela del contribuente per lasciare ampi spazi di manovra agli Uffici ed, inoltre, bisogna incominciare concretamente a rispettare i principi di buona fede ed affidamento (art. 10, comma 1, L . n. 212/2000) nonché del divieto della retroattività (art. 3, comma1, L. cit.) tenendo, altresì, conto che l'interpretazione autentica può essere data con legge ordinaria soltanto in casi eccezionali (art. 1, comma 2, L . cit.) e non è certo questo il caso.
Il rispetto delle regole come vale per il contribuente deve valere anche per il Fisco, che non può pretendere di cambiarle in corso d'opera quando si accorge che tale rispetto rende particolarmente gravosa l'attività di accertamento; altrimenti, stracciamo lo Statuto del Contribuente ed evitiamo di fare cause, sapendo fin dall'inizio che in qualunque momento il diritto del contribuente può trasformarsi in sopruso sul suddito.
Una volta che l'Ufficio avrà accertato (e motivato) le gravi incongruenze tra quanto dichiarato dal contribuente e gli studi di settore, potrà procedere ad accertamento , ex art. 39, comma 1, D.P.R. n. 600/73, ma non potrà ancora procedere alla determinazione dei ricavi . , poi, come specificamente richiesto dal legislatore, deve essere grave ; lo scostamento tra i ricavi dichiarati e i ricavi desumibili dagli studi di settore deve, cioè, essere piuttosto significativo .
Il legislatore, tuttavia, si è limitato a predeterminare soltanto qualitativamente l'entità dello scostamento, senza , peraltro, quantificarla, ad esempio prevedendo una percentuale di scostamento al di sotto della quale lo stesso non può considerarsi "grave" (come per il redditometro, per il quale lo stesso legislatore ha predeterminato il margine di scostamento, stabilendo che l'Ufficio può determinare sinteticamente il reddito quando quello individuato attraverso i c.d. "indicatori di capacità contributiva" si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato).
Lecce, 27 luglio 2006