Il legislatore tributario ha introdotto il divieto dello ius novorum nel disposto dell'art. 57 del Decreto Legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, analogamente a quanto già previsto dagli articoli 345 c.p.c. in ambito civile e 437 c.p.c. nel rito del lavoro. La norma costituisce una radicale innovazione rispetto ad una disciplina, quale quella dettata dal D.P.R. n. 636 del 1972, che difettava totalmente di una tale previsione.
La filosofia dell'articolo 57 risponde, infatti, all'esigenza di evitare un indebito ampliamento del thema decidendum nel processo di seconda istanza, che si configura come mera ripetizione del giudizio di primo grado, o più specificamente come una revisio prioris istantiae e non come un novum iudicium.
Il testo del citato art. 57 recita, al primo comma, che nel giudizio di appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili.
Il secondo comma prevede che non possono proporsi nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d'ufficio.
L'unica eccezione prevista è quella relativa alla richiesta di interessi maturati in seguito alla sentenza impugnata.
L'intento del legislatore è evidentemente quello di garantire l'attuazione del principio del doppio grado di giurisdizione anche nel processo tributario, nel quale, così come nel rito civile, l'appello è un mezzo d'impugnazione pienamente devolutivo ed interamente rescissorio. Ciò significa che il giudice d'appello si sostituisce a quello di primo grado nell'ambito dello stesso rapporto controverso, in quanto il rapporto è unico: iniziato e svolto davanti al giudice, esso riprende a svolgersi, nell'ambito delle parti impugnate, dinanzi ad un giudice di secondo grado, dinanzi al quale vi sarà una nuova fase decisoria che viene a sostituirsi alla prima.
I divieti contemplati nell'art. 57 hanno carattere assoluto e possono essere rilevati d'ufficio anche in caso d'accettazione del nuovo contraddittorio da parte dell'avversario. Inoltre, se la violazione è stata integrata dall'organo giudicante può essere rilevata anche d'ufficio in sede di giudizio di legittimità. Ciò è tuttavia possibile subordinatamente al fatto che il giudice di appello non abbia implicitamente o esplicitamente escluso la propria violazione. Diversamente, si renderà necessario proporre ricorso in Cassazione.
È opportuno sottolineare che, a differenza del processo civile, nel processo tributario sussiste una sorta di inversione dell'ordine dei protagonisti. Infatti il contribuente che ricorre per resistere alla pretesa avanzata dall'Amministrazione è l'attore formale. Tuttavia, in considerazione del fatto che in realtà è l'Amministrazione Finanziaria ad azionare per prima il meccanismo della domanda mediante l'atto impositivo, è corretto ritenere quest'ultima l'attore sostanziale, benchè in primo grado rivesta la qualifica di parte resistente.
Orbene, è esclusivamente all'attore formale, ovvero al contribuente che va riferito il divieto di cui al primo comma dell'art. 57. Il disposto del secondo comma in merito al divieto di presentare in appello nuove eccezioni può essere, invece, riferito ad entrambe le parti processuali. L'unilateralità della disposizione è giustificata dal fatto che, mentre il contribuente potrebbe trovarsi nella condizione di voler modificare le proprie domande, l'Amministrazione resistente non può formulare domande riconvenzionali né le è consentito arricchire nel corso del giudizio le determinazioni recepite negli atti impositivi impugnati.L'articolo continua dopo la pubblicità