E’ inammissibile il ricorso proposto contro il provvedimento di rettifica in autotutela di un avviso di accertamento che è divenuto definitivo con il quale l’Agenzia delle entrate ha ridotto la pretesa fiscale cioè sia l’imposta sia per le sanzioni.
Lo ha affermato l’ordinanza 8.11.2024, n. 28775, della Corte di cassazione, la quale è intervenuta anche in materia di spese di giudizio.
Sono rimaste estranee alla materia del contendere le questioni relative alla cartella di pagamento che è stata notificata sulla base dell’avviso di accertamento.
Ben differente, invece, è la questione relativa al provvedimento in autotutela con il quale l’amministrazione finanziaria si ravvede rettificando in aumento le risultanze presenti nell’avviso di accertamento (Cassazione, ordinanza 30.12.2020, n. 29874).
La Cassazione con l’ordinanza 14.12.2021, n. 39808, ha precisato che questa regola ha valenza anche quando gli atti di annullamento parziale siano stati notificati prima del decorso dei 60 giorni dalla notifica degli atti impositivi pregressi, le cui pretese fiscali siano state ridotte.
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La materia procedurale è così definita:
E’ evidente che l’impugnazione dell’avviso di accertamento è stata fatta tardivamente, cioè oltre il termine di 60 giorni previsto dall’art. 21 del d.lgs. 31.12.1992, n. 546, che era scaduto il 21.1.2009 “con la conseguente inammissibilità dell’impugnazione del provvedimento di annullamento parziale in autotutela con il quale erano state rideterminate in diminuzione le imposte e le sanzioni dovute dal contribuente”.
Il contribuente non può impugnare il provvedimento adottato in autotutela che rettifica in diminuzione l’avviso di accertamento che è divenuto definitivo.
Il provvedimento non può comportare alcuna effettiva informazione lesiva degli interessi del contribuente rispetto al quadro a lui già noto e consolidatosi a causa della mancata tempestiva impugnazione del precedente accertamento, dovendosi ammettere l’autonoma impugnabilità del nuovo atto se di portata ampliativa dell’originaria pretesa” (ordinanza citata).
Con la circolare 15.2.2013, n. 1/E, è stato precisato che:
Anche se la controversia è stata radicata avanti la corte di giustizia, è ammesso il riesame in autotutela.
Come regola generale la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza, secondo l’art.15 del d.lgs 31.12.1992, n. 546.
Nel caso di estinzione del giudizio ai sensi del successivo art. 46 per definizione delle pendenze tributarie per cessazione della materia del contendere, le spese del giudizio restano carico della parte che le ha anticipate.
Le spese del giudizio sono compensate in tutto o in parte, nel caso di soccombenza reciproca nonché quando ricorrono gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate ovvero quando la parte è risultata vittoriosa sulla base di documenti decisivi che la stessa ha prodotto in giudizio.
Verificandosi la rettifica dell’atto impositivo il giudice procede alla valutazione delle condizioni in merito alla presenza o meno delle condizioni che possono portare alla condanna delle spese processuali da parte dell’amministrazione finanziaria.
La Corte di cassazione (ordinanza 26.10.2011. n. 22231) ha escluso la condanna alle spese “quando l’annullamento non consegua ad una manifesta illegittimità dell’atto impugnato sin dal momento della sua emanazione, ma essa fosse incerta tanto da indurre, come nel caso di specie, il legislatore ad emanare norma interpretativa. Anzi, nella fattispecie l’annullamento costituisce un comportamento processuale conforme al principio di lealtà di cui all’art. 88 c.p.c. che può essere premiato con la compensazione delle spese”.