Nell’ambito delle operazioni oggettivamente inesistenti, definite nell’art. 1 c. 1 lett. a) del D.Lgs. n. 74 del 2000, rientrano anche quelle operazioni “parzialmente inesistenti” per le quali sono stati indicati in fattura «i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale».
Questa particolare fattispecie di operazione inesistente, definita anche “sovrafatturazione qualitativa”, si concretizza in una simulazione oggettiva relativa attestante la cessione di beni o la prestazione di servizi per un prezzo maggiore a quello reale.
Nello speciale che segue, si analizza la relazione tra operazioni parzialmente inesistenti e operazioni antieconomiche nelle imposte dirette e nell'IVA.
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L’analisi di questo tipo di operazioni presenta particolari complessità interpretative in quanto nella pratica operativa risulta spesso praticamente impossibile, senza ulteriori elementi a supporto, distinguere un’operazione inesistente per “sovrafatturazione qualitativa” da un’altra per la quale in fattura siano indicati corrispettivi in misura superiore a quella ritenuta congrua, ferma restando la veridicità della quantità e della qualità dei beni o servizi scambiati.
Si tratta di ipotesi non infrequenti ove si considerino alcune tipologie di contestazioni operate dall’Amministrazione finanziaria basate sulla non rispondenza dei corrispettivi praticati alle normali logiche imprenditoriali o su artificiosi meccanismi di formazione del prezzo volti esclusivamente a indirizzare verso una certa entità di un gruppo, che gode di particolari benefici fiscali, i redditi prodotti dalle altre consociate.
Le due fattispecie devono tuttavia essere considerate, concettualmente, tra loro assolutamente distinte e non assimilabili, in quanto l’ipotesi di sovrafatturazione qualitativa riguarda transazioni non effettivamente rese laddove le tematiche di “inerenza quantitativa” potrebbero attenere anche alla valutazione dei prezzi praticati nell’ambito dell’ordinaria logica economica, e la conseguente riferibilità dei beni o servizi acquistati all’attività d’impresa.
I concetti di antieconomicità e inerenza quantitativa afferiscono a tematiche più strettamente attinenti ai requisiti richiesti alle componenti negative per poter concorrere alla determinazione del reddito di impresa che non ai principi, più formali, che regolano il sistema di rivalsa e detrazione dell’IVA.
Tuttavia nei casi concreti il tema dell’antieconomicità delle operazioni presenta evidenti punti di contatto e analogie con le ipotesi fraudolente di operazioni inesistenti, in particolar modo nelle ipotesi di sovrafatturazione qualitativa e, più in generale, con i requisiti che legittimano l’esercizio del diritto alla detrazione dell’IVA.
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Per individuare in che misura le valutazioni di congruità del corrispettivo possono essere apprezzate nell’ambito della valutazione della genuinità e della effettività di una transazione economica occorre anche analizzare la relazione individuata dalla giurisprudenza tra il criterio della “inerenza quantitativa” (o giudizio di congruità dei costi) e il criterio del “corrispettivo pattuito” che regola il meccanismo impositivo dell’IVA.
Nella determinazione del reddito il principio di inerenza implica l’esistenza di una relazione, in termini generali, tra i costi e l’attività esercitata: i costi sono inerenti quando sono collegati anche indirettamente all’attività produttiva del reddito soggetto a tassazione.
Anche in ambito IVA, pur nella differente logica che caratterizza la deduzione dei costi e il meccanismo di detrazione dell’imposta, è possibile svolgere analoghe riflessioni ove si consideri che le argomentazioni sopra esposte in materia di imposte sul reddito trovano riflesso anche nei precetti della Direttiva 2006/112/CE che sono fondate sullo stesso concetto economico-aziendalistico di reddito quale risultato differenziale tra i ricavi d’impresa ed i costi ad essa collegati[1] .
La prevalente giurisprudenza di Cassazione[2] ha escluso che la valutazione dell’inerenza di un certo costo all’attività d’impresa possa dipendere da valutazioni circa la sua utilità[3] o congruità[4] (in coerenza coi principi della direttiva IVA) ritenendo tuttavia di poter apprezzare valutazioni di ordine quantitativo, nell’ambito di un giudizio di inerenza, su un piano logico diverso rispetto a quello della correlazione tra i costi e l’attività d’impresa in generale.
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Partendo dall’assunto che il principio di inerenza esprime una correlazione tra costi ed attività d’impresa in concreto esercitata la Corte ha infatti ritenuto di potere apprezzare queste ultime sul più ampio piano dell’onere probatorio.
Ragionando in questa diversa prospettiva la Cassazione, nel presupposto dell’unicità del principio di inerenza per entrambe i settori impositivi, ha però creato il presupposto per poter apprezzare valutazioni di ordine quantitativo anche nell’ambito del settore IVA.
La Corte ha infatti precisato che «… esula ai fini del giudizio qualitativo di inerenza un “apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità”, parametri che non sono espressione dell’inerenza ma “costituiscono meri indici sintomatici dell’inesistenza di tale requisito, ossia dell’esclusione del costo dall’ambito dell’attività d’impresa”»[5].
Secondo la Cassazione quindi, un giudizio sulla congruità di una certa spesa potrà assumere rilievo esclusivamente sul piano indiziario, tenuto conto di quanto documentato dal contribuente, per dimostrare, insieme ad altri elementi, che essa non sia, in realtà, correlata all’attività d’impresa.
Questo tipo di giudizio ha quindi un carattere diverso da quello di inerenza e consiste nell’individuare, per lo specifico atto d’impresa (i.e. un acquisto), un rapporto di proporzionalità tra il quantum corrisposto ed il vantaggio conseguito[6].
Ciò comporterà che, ove sussista la sproporzione di un onere rispetto agli ordinari criteri di economicità della gestione d’impresa, dimostrata tenendo conto di ogni utilità che da esso possa derivare alla gestione, essa assumerà valore sintomatico del fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce potrebbe essere diverso ed estraneo all’attività d’impresa, ossia che un certo onere, in realtà, possa non essere correlato all’attività produttiva, ma assolvere ad altre finalità e rimanere pertanto estraneo, oltre che alla determinazione del reddito, anche allo svolgimento delle operazioni rientranti nel campo di applicazione dell’IVA, seppur regolata dal richiamato criterio del “corrispettivo pattuito”.
Questa interpretazione del rapporto tra le valutazioni di inerenza e congruità, anche in materia di IVA, risulta certamente compatibile con la consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia UE secondo cui, come accennato in precedenza, ai fini del riconoscimento del diritto alla detrazione «… la circostanza che un’operazione economica sia effettuata ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo di costo, e dunque a un prezzo superiore o inferiore al prezzo normale di mercato, è irrilevante …» a meno che l’antieconomicità manifesta e macroscopica dell’operazione, ossia che esula dal normale margine di errore di valutazione economica, sia «… tale da assumere rilievo indiziario di non verità della fattura o di non inerenza della destinazione del bene o servizio all’utilizzo per operazioni assoggettate ad Iva.»[7].
In altri termini, in caso di “manifesta sproporzione”, lo stesso giudizio di congruità del prezzo potrebbe, con altri elementi, risultare addirittura indice della non genuinità dell’operazione descritta in fattura.
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[1] In base all’art. 9 della Direttiva 2006/112/CE «… si considera “soggetto passivo” chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività…» e «… si considera, in particolare, attività economica lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità.».
[2] Cfr recentemente Corte di Cassazione sentenza del 18.1.2022, n. 1449 secondo cui l’inerenza si ricava dalla nozione di reddito d’impresa (e non dall’art. 109, comma 5, del TUIR, riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili) «ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta), in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico e non assumendo rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo.».
[3] Sul punto cfr. Cassaz. Sentenza n. 18904 del 17/8/2018: «… l’introduzione di un concetto, quale quello di utilità, nel principio di inerenza non appare necessario, posto che evoca un rapporto di causalità diretta tra il costo e il vantaggio per l’impresa (vantaggio che non è detto debba esservi), non trova un riscontro in dati normativi positivi e, comunque, non sempre bene si attaglia ad una varietà di sopravvenienze negative (si pensi alle perdite oppure alla penale per inadempimento contrattuale, la cui utilità è stata valutata in considerazione del rafforzamento del vincolo negoziale: Cass. n. 19702 del 27/09/2011; Cass. n. 16561 del 05/07/2017) sì da determinarne una espansione teorica, dai confini non sempre chiari.».
[4] Sul punto si richiama anche Cassaz. n. 450 del 11/01/2018, che collega la nozione fiscale di inerenza all’esercizio dell’attività d’impresa affermando che «…il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale…» e che da esso va esclusa ogni valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta) o congruità «… perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo.» .
[5] Cassaz. ordinanza n. 3170 del 09/02/2018.
[6] Cfr Cassaz. Sentenza n. 18904/2018: «… Nell’ambito delle imposte sui redditi, la valutazione di antieconomicità - ossia dell’evidente incongruità dell’operazione legittima - fonda il potere dell’Amministrazione finanziaria di accertamento D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d, (v. Cass. n. 9084 del 07/04/2017; Cass. n. 26036 del 30/12/2015), in base al principio secondo cui chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, secondo l’id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti, sicché le condotte improntate all’eccessività di componenti negativi o all’immotivata compressione di componenti positivi di reddito sono rivelatrici di un occultamento di capacità contributiva e la spesa, in realtà, non trova giustificazione nell’esercizio dell’attività d’impresa.»
[7] Corte di Giustizia, 20 gennaio 2005, C-412/03, Hotel Scandic Gp.sabijck, ma sul punto si vedano anche: Corte di Giustizia, 26 aprile 2012, C-621/10 e C129/11, Balkan; Corte di Giustizia, 9 giugno 2011, C-285/10, Camp-sa Estaciones de Servicio, Corte di Giustizia, 2 giugno 2016, in C-263/15, Lajvèr), nonché Cass. n. 22130 del 27/09/2013; Cass. n. 12502 del 04/06/2014; Cass. n. 26036 del 30/12/2015; Cass. n. 2875 del 03/02/2017; Cass. n. 2240 del 30/01/2018.
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