In attuazione della Legge 9 agosto 2023 n. 111, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 189 del 14.08.2023, recante "Delega al Governo per la revisione del sistema tributario”, il Consiglio dei Ministri ha approvato nella seduta del 16 ottobre 2023, in esame preliminare, un decreto legislativo in materia di fiscalità internazionale. Il 7 novembre, il testo è stato trasmesso al Parlamento (Camera dei deputati) per la discussione, eventuale modifica e votazione.
Per quanto di interesse in questa sede, all’interno del Titolo I (Disposizioni in materia di fiscalità internazionale), Capo II (Altre disposizioni in materia di fiscalità internazionale), è contenuto l’art. 5 rubricato: “Nuovo regime agevolativo a favore dei lavoratori impatriati.”
Già dal titolo pare subito evidente che non si tratta di una delle tante modifiche e integrazioni succedutesi negli anni: il Governo ha inteso sostituire integralmente l’attuale art. 16 del D.lgs. 147/2015, ridefinendo il perimetro di applicazione . E lo scrive chiaramente nel primo periodo del comma 6, nel quale si legge espressamente che:
“Dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogati l'articolo 16 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147, e l’articolo 5, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 giugno 2019, n. 58.”
Diciamo subito che, indipendentemente dalle restrizioni operative previste, la scelta di una riscrittura della norma incontra senz’altro i favori di coloro che saranno chiamati a doverla interpretare, atteso che continuare a “pasticciare” sul testo di legge originale, avrebbe causato solo ulteriori difficoltà di “traduzione” pratica, con l’aggravante che – tra le novità che ci aspettano – in futuro sono previste le istanze di interpello a pagamento.
Sarebbe, dunque, meglio che non ce ne fosse bisogno. Staremo a vedere…
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Per facilitare un’immediata comprensione del lettore, riportiamo di seguito l’attuale testo approvato in via preliminare dall’Esecutivo.
1. I redditi di lavoro dipendente, i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, i redditi di lavoro autonomo prodotti in Italia da lavoratori che trasferiscono la residenza nel territorio dello Stato ai sensi dell'articolo 2 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, entro il limite di 600.000 euro, concorrono alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 50% del loro ammontare al ricorrere delle seguenti condizioni:
a) i lavoratori non sono stati fiscalmente residenti in Italia nei tre periodi d'imposta precedenti il predetto trasferimento e si impegnano a risiedere fiscalmente in Italia per almeno cinque anni;
b) l’attività lavorativa viene svolta nel territorio dello Stato in virtù di un nuovo rapporto di lavoro con un soggetto diverso da quello presso il quale il lavoratore era impiegato all’estero prima del trasferimento nonché da quelli appartenenti al suo stesso gruppo;
c) l'attività lavorativa è prestata per la maggior parte del periodo d’imposta nel territorio italiano;
d) i lavoratori sono in possesso dei requisiti di elevata qualificazione o specializzazione come definiti dal decreto legislativo 28 giugno 2012, n. 108, e dal decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206.
2. Le disposizioni del presente articolo si applicano nel periodo di imposta in cui è avvenuto il trasferimento della residenza fiscale nel territorio dello Stato e nei quattro periodi d’imposta successivi. Qualora la residenza fiscale in Italia non sia mantenuta per almeno cinque anni il lavoratore decade dai benefici e si provvede al recupero di quelli già fruiti, con applicazione dei relativi interessi.
3. I cittadini italiani possono accedere ai benefici fiscali previsti dal presente articolo se, per il triennio di cui al comma 1, lettera a), sono stati iscritti all'Anagrafe degli italiani residenti all'estero (AIRE) ovvero hanno avuto la residenza in un altro Stato ai sensi di una convenzione contro le doppie imposizioni sui redditi.
4. Le disposizioni del presente articolo si applicano nel rispetto delle condizioni e dei limiti del regolamento (UE) 1407/2013 della Commissione, del 18 dicembre 2013, relativo all'applicazione degli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea agli aiuti de minimis, del regolamento (UE) 1408/2013 della Commissione, del 18 dicembre 2013, relativo all'applicazione degli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea agli aiuti de minimis nel settore agricolo, e del regolamento (UE) 717/2014 della Commissione, del 27 giugno 2014, relativo all'applicazione degli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea agli aiuti de minimis nel settore della pesca e dell'acquacoltura.
5. Le disposizioni del presente articolo si applicano a favore dei soggetti che trasferiscono la residenza fiscale in Italia a decorrere dal periodo d’imposta 2024.
6. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogati l'articolo 16 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147, e l’articolo 5, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 giugno 2019, n. 58. Tuttavia, le disposizioni di cui al primo periodo continuano a trovare applicazione nei confronti dei soggetti che hanno trasferito la loro residenza anagrafica in Italia entro il 31 dicembre 2023 ovvero, per i rapporti di lavoro sportivo, che hanno stipulato il relativo contratto entro la stessa data.
Il primo periodo del comma 1 offre subito due novità di rilievo:
1) La detassazione è prevista solo per quella parte di reddito che non supera i 600.000 euro: attualmente, non è stabilito alcun limite massimo reddituale
2) Detta esenzione è inoltre fissata al 50%, senza differenze regionali tra il Mezzogiorno e il resto del Paese: oggi, abbiamo un abbattimento del 90% di imponibile, per chi ha acquisito la sua prima residenza (al momento dell’impatrio) in un Comune del Mezzogiorno; del 70%, per gli altri
Delle due, la prima, a parere di chi scrive, è senz’altro condivisibile: le norme speciali per favorire i c.d. “paperoni” che vogliono andare a vivere in Italia, col senno di poi, si sono dimostrate vantaggiose solo per questi ultimi. La soglia-limite scelta pare più che ragionevole, da questo punto di vista.
Sulla seconda, invece, al di là della misura-percentuale, francamente una diversificazione tra Mezzogiorno e resto d’Italia (così come avviene in un certo senso pure per la flat-tax sui pensionati esteri che impatriano), non ci sembrava affatto sbagliata. Evidentemente, la c.d. “coperta corta” delle finanze statali, impone degli indispensabili tagli.
I NUOVI REQUISITI RICHIESTI
Andando a verificare i requisiti richiesti, al primo punto (lettera a) sono previste altre due novità:
Le disposizioni, evidentemente, mirano da un lato a diminuire il giochino del trasferimento pro-tempore all’estero solo per rientrare in regime di vantaggio e, dall’altro, fidelizzare maggiormente l’impatriato. Anche queste ci paiono misure che vanno giustamente a correggere taluni vulnus presenti nell’odierna legge.
La successiva lettera b) ci propone una nuova restrizione:
L’impatriato deve lavorare in Italia in forza di un nuovo rapporto di lavoro e per conto di un soggetto diverso, neppure appartenente allo stesso gruppo, rispetto all’occupazione precedente.
Concordiamo:
La lettera c) non presenta alcuna novità.
La lettera d), invece, propone un’ulteriore restrizione: la norma è emanata per favorire l’impatrio di soggetti qualificati; non di tutti indistintamente. Ergo, per beneficiare del regime agevolativo, i lavoratori dovranno essere in possesso dei requisiti di elevata qualificazione o specializzazione (in sostanza, laurea riconosciuta in Italia, o altro titolo equipollente).
Da un lato, si cerca di attirare cittadini qualificati in Italia; e va benissimo.
Dall’altro, però, la ratio iniziale del regime impatriati era quella più generale di controbilanciare almeno in parte i nostri “esodati”: restringendo il campo, il Governo dimostra chiaramente il suo dissenso rispetto a tale motivazione originale.
Il comma 2 non prevede differenze rispetto all’attuale disposto normativo, a parte la già evidenziata permanenza quinquennale italiana: il beneficio si ha per 5 periodi di imposta (o meglio, il periodo di acquisizione della residenza fiscale più altri 4) e, se si espatria prima del predetto lustro, si perdono i benefici e si deve restituire tutto con gli interessi (niente sanzioni).
Il comma 3 ripropone una disposizione già esistente, seppure – occorre riconoscerlo – questa volta con una riscrittura che appare più semplice e meno “da interpretare”, concernente esclusivamente i cittadini italiani: anche se non iscritti all’AIRE nei 3 periodi di imposta precedenti l’impatrio, possono accedere ai benefici se, in tale lasso di tempo, risultavano comunque fiscalmente residenti in un altro Stato, sulla base di quanto previsto da una convenzione contro le doppie imposizioni in vigore (non si parla più di Stati con i quali è in vigore un accordo sullo scambio di informazioni in materia fiscale).
Nell’idea inizialmente sbandierata, la novella doveva muoversi seguendo un nuovo orientamento nazionale in materia di residenza fiscale, molto vicino a quanto indicato dalle linee guida espresse nel Commentario OCSE. Nuovo orientamento che sarebbe stato in realtà ripreso sin dall’art. 1 (Capo I) del decreto qui in esame.
Ebbene, il predetto art. 1 del decreto riscrive, sì, l’art. 2 del TUIR, ma resta davvero molto lontano da quanto era lecito aspettarsi in tema di uniformità normativa a livello OCSE. Semmai, peggiora ulteriormente la già difficile situazione attuale, richiamando l’importanza fondamentale dell’indice di residenza concernente le relazioni familiari.
L’unica sostanziale differenza sta nella possibilità per il contribuente di fornire la – difficilissima – prova contraria rispetto alla mera iscrizione nelle anagrafi nazionali. In tal modo, il Governo dimostra di essere distante anni luce dalla reale situazione concreta che vivono gli Italiani emigrati all’estero.
Ciò rimarcato per puro dovere di cronista, l’errore più grave che ha commesso l’estensore della disposizione è ben altro ed è di carattere squisitamente tecnico-tributario. Una delle poche certezze interpretative garantite dall’Agenzia delle entrate in merito all’attuale regime impatriati era la durata del periodo “pre” e “post” trasferimento della residenza: nel primo caso (pre-residenza), si parlava di periodi di imposta; nel secondo caso (post-residenza), si parlava di anni.
Qua, l’Esecutivo commette un errore macroscopico e, dopo aver parlato di “tre periodi d'imposta precedenti il trasferimento” nel primo comma, in questo comma 3 cambia inopinatamente visione e parla di “triennio”, così aprendo un’autostrada a dubbi interpretativi e dando via libera al prossimo ondivago orientamento della giurisprudenza al riguardo. Ci auguriamo davvero che si ponga rimedio a questo pericolosissimo “accidente grammaticale”, potenzialmente foriero di enormi problemi pratici, prima della votazione del testo definitivo.
Peraltro, le sciagure del comma 3 non finiscono qui. Si insiste su una norma chiaramente discriminatoria tra cittadini italiani e non: siano essi intra-UE o extra-UE. Intra-UE, poiché è evidente che si crei così un’ingiusta differenziazione tra i diritti dei cittadini italiani rispetto al libero diritto di circolazione e di stabilimento dei restanti cittadini dell’Unione. Extra-UE, perché tutte le convenzioni contro le doppie imposizioni prevedono espressamente che:
“I nazionali di uno Stato contraente, non sono assoggettati nell'altro Stato contraente ad alcuna imposizione e obbligo a essa relativo, diversi o più onerosi di quelli cui sono o potranno essere assoggettati i nazionali di detto altro Stato che si trovino nella stessa situazione.” Orbene, considerato che la normativa convenzionale internazionale prevale su quella domestica, non è (neanche in questo caso) difficile scommettere su futuri lunghi e incerti contenziosi.
Il successivo comma 4 parrebbe più che altro una norma di garanzia dello Stato contro l’apertura di potenziali procedure di infrazione, richiedendo la verifica degli eventuali benefici del regime speciale, all’interno del perimetro delle leggi comunitarie sui c.d. “aiuti de minimis”.
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Il comma 5 si limita a stabilire la decorrenza del nuovo regime impatriati semplicemente a partire dal periodo d’imposta 2024.
In vero, parlare sic et simpliciter di “periodo d’imposta”, anche in questo caso, potrebbe risultare rischioso (specie se leggiamo tale disposizione di concerto con quella poco prima riportata al comma 2, primo periodo). Stando così le cose, infatti, tutti coloro che hanno trasferito la residenza fiscale in Italia nel secondo semestre del corrente 2023 (ossia, quando erano – e tutt’ora sono – in vigore le norme indicate nell’odierno art. 16, D.lgs. 147/2015), sarebbero soggetti al nuovo regime. La cosa costituirebbe una gravissima lesione dei diritti dei cittadini in questione, considerato che l’appena citato art. 16 (e le relative successive modifiche intervenute) vengono tutti espressamente abrogati, come si legge nel primo periodo dell’ultimo comma. Ciò significa che, oltre a tutte le altre restrizioni già viste, non è più previsto l’ulteriore quinquennio di agevolazioni (previo acquisto di immobile in Italia o con figli minorenni a carico), e neppure l’importante analoga detassazione per il reddito d’impresa.
A detto ultimo riguardo, è doveroso aprire una parentesi per rappresentare che il Governo sembrerebbe semplicemente aver compiuto un lavoro sistematico delle disposizioni, separando in altro articolo (il numero 6) i benefici per gli imprenditori. La scrittura dell’articolo in questione (come avremo modo di vedere nel prossimo capitolo) non appare però affatto chiara.
Tornando invece all’effettiva decorrenza delle nuove regole, fortunatamente, nel secondo periodo del comma 6, interviene una sorta di disposizione “salva-deroga” a chiarire la portata di quanto indicato nel precedente comma 5:
“Le disposizioni di cui al primo periodo (art. 16, D.lgs. 147/2015 e s.m.i.) continuano a trovare applicazione nei confronti dei soggetti che hanno trasferito la loro residenza anagrafica in Italia entro il 31 dicembre 2023 ovvero, per i rapporti di lavoro sportivo, che hanno stipulato il relativo contratto entro la stessa data.”
Dunque, nonostante coloro che trasferiscono la residenza anagrafica in Italia nel secondo semestre del corrente 2023, avranno il 2024 quale primo periodo di imposta in cui la residenza fiscale viene effettivamente acquisita in Italia (salvo ovviamente nei trasferimenti Italia/Svizzera e Italia/Germania, come dagli specifici accordi convenzionali), a tali soggetti si continuerà comunque ad applicare il regime impatriati, come attualmente disciplinato nel Decreto Internazionalizzazione e nel Decreto Crescita (idem per i rapporti di lavoro sportivo). Detta previsione normativa è sacrosanta e indiscutibile. Purtuttavia, una maggiore chiarezza espositiva sul punto da parte del Legislatore in sede di modifica del decreto sarebbe più che gradita e auspicabile al fine di stroncare alla radice qualsivoglia potenziale difforme interpretazione.
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Prima di concludere questa analisi, restano peraltro ancora talune considerazioni da svolgere.
I DUBBI NON RISOLTI
Francamente, tenuto conto della pletora di documenti di prassi licenziati sulla normativa qui in esame, sarebbe stato lecito attendersi un intervento che cogliesse l’occasione per porre fine alle numerose problematiche connesse con l’odierno testo di legge. Sicuramente, a seguito dello stralcio di alcune disposizioni nel nuovo testo: sono spariti ad esempio:
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In ogni caso, giova tenere presente che l’odierno regolamento resterà comunque ancora in vigore per svariati anni in capo agli impatriati trasferiti in Italia entro le date specificamente richieste.
Conseguentemente, i tecnici avrebbero dovuto mettere mano ai predetti dubbi operativi al fine di risolverli, senza obbligare i contribuenti a dover spendere i soldi necessari per più che probabili interpelli (e sempre ammesso che l’Agenzia non eviti di rispondere, accampando la solita scusa dell’interpello inammissibile).
Per altro verso, inoltre, nulla viene chiarito riguardo al problematico requisito (da provare a opera dell’impatriato) della presenza di un collegamento tra il trasferimento in Italia e l’inizio dell’attività lavorativa. Si continua a lasciare un’indubitabile autonomia discrezionale in capo all’Amministrazione finanziaria che non avrebbe ragion d’essere, posto che si sta in ogni caso riscrivendo ex novo una norma (dunque, si spera, anche correggendone i precedenti difetti).
Tale richiesto “collegamento” non appare sorretto in alcun punto della norma, essendo meramente frutto di una libera interpretazione dell’Agenzia delle entrate; e, d’altronde, in ottica pratica, non avrebbe proprio alcun senso, tenuto conto della ratio della legge. È semplicemente precisato che il reddito agevolabile deve essere quello prodotto in Italia. Da qui a imporre (come requisito sine qua non) che il lavoro in Italia debba avvenire immediatamente dopo il trasferimento, beh, ce ne passa…
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LA DISTINZIONE TRA LAVORO DIPENDENTE E LAVORO AUTONOMO
Un secondo incomprensibile comportamento inattivo dei tecnici del MEF che merita di essere ampiamente stigmatizzato è quello relativo al differente trattamento tra reddito di lavoro dipendente (e assimilato) e reddito di lavoro autonomo, per quanto concerne l’imponibilità contributiva. Anche su questo, invero, era più che auspicabile un’immediata presa di posizione, modificando in maniera inequivocabile il testo di legge, posto che risulta a tutti incomprensibile per quale motivo il reddito di lavoro autonomo imponibile contributivo sia quello detassato, contrariamente a quello spettante ai lavoratori dipendenti (e assimilati), sulla base degli odierni tracciati della modulistica da compilare (buste paga, CU, Modelli Redditi PF, etc.).
Insomma, due grosse “falle” che non ci saremmo mai aspettati dal consesso di tecnici riuniti per studiare la normativa in questione e che assai difficilmente potranno essere colmate in questa fase parlamentare.
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Chiudiamo con una nuova interessante normativa, traslata dal regime impatriati, ma questa volta indirizzata alle attività svolte in forma associata.
Tale disposizione, seppure – a parere di chi scrive – necessiti di non pochi chiarimenti (oltre che dell’indispensabile autorizzazione preventiva da parte della Commissione europea), appare comunque atto lodevole al fine di incrementare il nostro tessuto economico e (il condizionale è d’obbligo) stando al decreto, dovrebbe entrare in funzione dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di approvazione del decreto stesso.
Il testo è il seguente:
Art. 6 (Trasferimento in Italia di attività economiche)
1. Al fine di promuovere lo svolgimento nel territorio dello Stato italiano di attività economiche, i redditi derivanti da attività di impresa e dall’esercizio di arti e professioni esercitate in forma associata, svolte in un Paese estero non appartenente all’Unione europea o allo Spazio economico europeo, trasferite nel territorio dello Stato, non concorrono a formare il reddito imponibile ai fini delle imposte sui redditi e il valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive per il 50 per cento del relativo ammontare nel periodo di imposta in corso al momento in cui avviene il trasferimento e nei cinque periodi di imposta successivi.
Il principio è lo stesso di quello previsto con il regime impatriati (e anche la nuova percentuale di detassazione), con alcune lievi differenze:
2. Non sono incluse tra le attività di cui al comma 1 quelle esercitate nel territorio dello Stato nei ventiquattro mesi antecedenti il loro trasferimento.
Quindi, in questo caso si ritorna al limite minimo dei 2 anni, ex art. 16, D.lgs. 147/2015.
3. Ai fini della determinazione dei redditi di cui al comma 1, il contribuente è tenuto a mantenere separate evidenze contabili idonee a consentire il riscontro della corretta determinazione del reddito e del valore della produzione netta agevolabile.
4. L’agevolazione di cui al comma 1 viene meno se nei cinque periodi d’imposta, ovvero dieci se trattasi di grandi imprese, individuate ai sensi della raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003, successivi alla scadenza del regime di agevolazione il beneficiario trasferisce fuori del territorio dello Stato, anche parzialmente, le attività oggetto del precedente trasferimento e l’Amministrazione finanziaria recupera nei suoi confronti, con gli interessi, le imposte non pagate durante il regime agevolativo dal quale è decaduto.
Sicuramente condivisibile la norma di salvaguardia locale, per quanto denoti quella che parrebbe essere una sorta di contraddizione: il comma 1 precisa che il trasferimento “in entrata” in Italia possa necessariamente avvenire solo da un Paese terzo (extra-UE e/o extra-SEE); in questo comma 4, invece, viene indicato solo che è sufficiente “in uscita” dall’Italia il trasferimento – anche solo parziale – verso qualsivoglia Paese.
Orbene, è assolutamente possibile che l’intenzione dell’Esecutivo sia, in questo caso, di garantire il più possibile la permanenza in Italia, anche se “in entrata” ritiene preferibile limitare il range di imprese ammissibili. Peraltro, la disposizione appare lo stesso contraddittoria e, di conseguenza, anche la sua ratio.
5. L'efficacia delle disposizioni del presente articolo è subordinata, ai sensi dell'articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, all'autorizzazione della Commissione europea.
Art. 7 (Decorrenza)
2. Le disposizioni si applicano a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di approvazione del presente decreto.
Considerata la necessità di ricevere il benestare da parte della Commissione europea e gli indispensabili decreti attuativi (senza cui sembra improbabile l’immediata operatività della normativa), ci pare assai difficile che il termine di decorrenza indicato nel sopra richiamato art. 7 del decreto, possa essere effettivamente rispettato. Speriamo di sbagliare...
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