Con il contratto di soccida, di cui all’art. 2170 c.c., “il soccidante e il soccidario si associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l’esercizio delle attività connesse con lo scopo di ripartire l’accrescimento del bestiame e gli altri prodotti e utili che ne derivano. L’accrescimento consiste tanto nei parti sopravvenuti, quanto nel maggior valore intrinseco che il bestiame abbia al termine del contratto”.
Il contratto presenta tre fattispecie quali
Il contratto di soccida è implicitamente considerato dalla normativa fiscale nella formula “i soggetti che esercitano le attività indicate nell’art. 2135 c.c.” (art. 34, 2° comma, del d.p.r. 26.10.1972, n. 633, ai fini dell’IVA e art. 32 del d.p.r. 22.12.1986, n. 917, ai fini delle imposte sui redditi).
Dopo aver fatto un breve cenno sui lineamenti del contratto di soccida affrontiamo il tema dell'IVA e il più recente intervento della Cassazione a riguardo.
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Secondo la c.m. 9.2.1995, n. 48/E, “gli atti generatori il contratto di soccida non sono …. fattispecie aventi rilievo ai fini dell’IVA. Identica affermazione può farsi relativamente alla fase estintiva del menzionato rapporto contrattuale”.
In precedenza la c.m. 27.4.1973, n. 32, aveva considerato produttori agricoli “in quanto partecipi dell’attività di allevamento di cui si assumono i rischi in proporzione alle quote conferite, sia il soccidario che il soccidante il quale svolga in proprio l’attività di allevatore. Ne deriva che alle cessioni aventi per oggetto i frutti dell’allevamento … la veste di contribuente viene assunta dal solo soccidante qualora provveda alla vendita dell’intero prodotto, ovvero anche dal soccidario per la parte di sua spettanza che venga da esso direttamente ceduta”.
Il concetto, però, è stato oggetto di revisione con la r.m. 28.5.1980, n. 381861, secondo cui gli obblighi IVA “devono essere osservati dal solo soccidante nell’ipotesi di contratto associativo con divisione dell’importo ricavato dalla vendita dei prodotti in questione, e distintamente dal soccidante e dal soccidario nell’ipotesi di contratto associativo con divisione di tutti i prodotti dell’azienda tra i due contraenti i quali provvedono successivamente alla vendita in proprio dei prodotti loro spettanti”.
In sintesi, la prassi, facendo riferimento all’art. 34 del d.p.r. 26.10.1972, n. 633, considera il concetto di “produttore agricolo” cioè il soggetto che esercita un’attività indicata all’art. 2135 c.c.
Secondo il codice civile la qualifica è presente per il soccidario e per il soccidante che esercita in proprio l’attività di allevamento di animali. Quest’ultimo, quindi, deve essere un imprenditore agricolo, sia come proprietario sia come affittuario, deve disporre non solo dei terreni ma anche di fabbricati rurali destinati al ricovero degli animali e deve svolgere un’attività diretta alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria dello stesso.
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L’ordinanza 6.6.2023, n. 15764, richiamandosi alla sentenza 14.1.2022, n. 987, ha precisato che il contratto di soccida semplice “è da considerarsi attività agricola, come si desume sia dalla sedes materiae (essendo il contratto di soccida inserito tra i contratti tipici agrari) che dalla espressa formulazione dell’art. 2170, c.c., secondo cui nella soccida il soccidante e il soccidario “si associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame”, che, infine, dall’interpretazione sistematica, atteso che al soccidante è riconosciuta la direzione dell’impresa, quindi partecipa al rischio dell’impresa, al pari del soccidario” sicché “gli stessi sono contitolari dell’impresa di allevamento e, quindi, sono entrambi imprenditori agricoli”.
In questa cornice, quindi, entrambi sono imprenditori agricoli per cui sono soggetti IVA che applicano il citato art. 34 e, esercitando l’opzione per il regime ordinario possono esercitare la detrazione dell’IVA sull’acquisto di beni strumentali, chiedendo il rimborso del credito d’imposta che si è formato.
La monetizzazione dell’accrescimento spettante al soccidario “attiene ai rapporti interni tra gli associati e non all’attività agricola, sicché essa integra un indice estraneo e non pertinente ai fini della qualificazione dell’attività del soccidario”, rappresentando un “riparto degli utili dell’attività di impresa tra il soccidante e il soccidario.
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Con la sentenza 18.5.2007, n. 11597, la Corte di cassazione aveva negato la qualifica di produttore agricolo al soccidante che non esercita l’attività ai sensi dell’art. 2135 c.c. In altri termini è necessario che il soccidante eserciti l’attività di allevamento di animali, cioè diretta alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico “il che comporta la non assoluta trasposizione delle caratteristiche di taluni contratti agrari - come la soccida - nella normativa fiscale, la cui ratio è strettamente connessa alla condotta del soggetto agevolato”. In definitiva, il soccidante non è considerato imprenditore agricolo ai sensi dell’art. 34 se non esercita direttamente una fase necessaria del ciclo biologico. Il contratto si ravvisa se è presente l’effettivo svolgimento di un’attività agricola.
Sia il soccidario sia il soccidante danno luogo ad una impresa agricola associata, di cui entrambi sono titolari: il soccidario è chiamato a curare lo sviluppo del ciclo biologico degli animali e il soccidante ha il compito di direzione e di organizzazione dell’impresa.
È interessante la puntualizzazione fatta dalla Corte di cassazione con la sentenza 14.1. 2022, n. 987;
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