Si è svolto lo scorso 10 maggio 2023 l’interessante incontro “VII Laboratorio tributario – Onere della prova e rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione”, organizzato dalla “Struttura di formazione decentrata presso la Corte di cassazione”.
L’obiettivo del convegno era quello di sensibilizzare la magistratura tributaria, di merito e di legittimità, su alcune questioni recentemente fatte oggetto di importanti interventi normativi.
Per tale ragione è stato istituito un gruppo di lavoro che ha predisposto un questionario propedeutico alla sessione conclusiva dell’iniziativa presso l’Aula Magna della Corte di cassazione, nel corso della quale è stata a lungo analizzata l’applicazione della nuova norma sull’onere della prova nel processo tributario, introdotta dal comma 5 bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, in determinate fattispecie concrete, tra cui, in materia di IVA, quella delle operazioni soggettivamente inesistenti.
Vediamo i risultati e un commento alle conclusioni raggiunte, la posizione della giurisprudenza Comunitaria sul tema.
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In relazione a tale fattispecie, il citato gruppo di lavoro aveva chiesto ai giudici tributari quali siano «le circostanze che possono essere addotte dall’Amministrazione per provare la consapevolezza del cessionario di partecipare a uno schema fraudolento e a fronte delle quali il contribuente è onerato della prova contraria» e, quindi, condurre legittimamente alla negazione del diritto alla detrazione.
Queste le risposte fornite:
A modesto avviso di chi scrive la risposta che appare più convincente è quella data dal 5% degli intervistati, non tanto in considerazione dell’avvento del nuovo comma 5 bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, quanto piuttosto alla luce della consolidata giurisprudenza unionale, che già in precedenza avrebbe dovuto costituire un riferimento per il giudice tributario.
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La CGUE ha sempre rifiutato un sistema di “responsabilità oggettiva” del “committente/cessionario” rispetto alla frode o all’evasione di IVA perpetrata dal soggetto che emettendo la fattura appare essere il fornitore (tra le tante: ordinanza 3.9.2020, causa C-610/19, Vikingo Fővállalkozó; sentenza 6.12.2012, causa C-285/11, Bonik; sentenza 21.6.2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahagében e Dávid), e per tale ragione ritiene che, in presenza di operazioni di acquisto realmente effettuate, la necessaria prova della consapevolezza da parte del “committente/cessionario” dell’evasione o della frode IVA perpetrata dal “fatturante” presuppone che l’Autorità fiscale nazionale non si limiti alla sola prospettazione di quegli elementi di fatto da cui presumere che il soggetto che ha emesso la fattura non sia l’effettivo fornitore del bene o del servizio (tra le tante: sentenze 22.10.2015, causa C-277/14, PPUH Stehcemp e 13.12.2014, causa C-18/13, Maks Pen e sentenza 21.6.2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahagében e Dávid), dovendo, viceversa, addurre elementi oggettivi diversi dalla semplice sostanziale fittizietà del “fatturante” o dal mero inadempimento da parte di quest’ultimo degli obblighi fiscali dichiarativi e di versamento previsti in materia di IVA.
Più nello specifico, analizzando le svariate fattispecie concrete portate all’attenzione dei Giudici unionali emerge che l’Autorità fiscale nazionale, al fine di provare che la parte acquirente sapesse, o avrebbe dovuto sapere con l’ordinaria diligenza professionale, che l’operazione commerciale compiuta si iscriveva in un’evasione o in una frode IVA, non può limitarsi a dare dimostrazione dei seguenti elementi “oggettivi”:
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