Il tribunale di Roma con una recente sentenza della sez. VIII Civile n. 6431 pubblicata in data 15 aprile 2021 RG n. 5263/2021 Repert. n. 7169/2021 del 15 aprile 2021 pone il fianco all’analisi di un istituto affatto peculiare che trova cittadinanza nel nostro ordinamento a tutela delle rationes del ceto creditorio; il riferimento corre al rimedio dell’impugnativa della rinunzia all’eredità da parte del creditore del chiamato rinunziante.
L’inquadramento sistematico del fenomeno de quo si esaurisce nel disposto normativo di cui all’art. 524 c.c., alquanto sibillino, che mette conto riportare qui di seguito nel suo letterale tenore:
“Se taluno rinunzia, benché senza frode, a un'eredità con danno dei suoi creditori, questi possono farsi autorizzare ad accettare l'eredità in nome e luogo del rinunziante, al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti.
Il diritto dei creditori si prescrive in cinque anni dalla rinunzia.”
Da una piana lettura del dettame citato emerge con nitore il fondamento della previsione di legge, consistente nell’esigenza di assicurare idonea protezione ai creditori del chiamato all’eredità verso un atto potenzialmente lesivo delle loro ragioni, quale per l’appunto integra una rinunzia all’eredità al debitore devoluta, dal medesimo eseguita a fronte di un relictum di segno positivo e, pertanto, in spregio alle pretese di costoro, inabilitati a trovare ristoro e soddisfacimento nella garanzia generica loro offerta dal debitore rinunziante, giacché incapiente.
È discusso se l’orbita applicativa del rimedio in discorso possa essere estesa oltre i confini della rinuncia all’eredità stricto sensu intesa, sino a ricomprendervi altresì le diverse ipotesi della prescrizione del diritto di accettare l’eredità e della decadenza dallo stesso.
Il primo nodo è sciolto nel senso di negare l’ammissibilità di un’interpretazione estensiva dell’art. 524 c.c., poiché l’ordinamento fornisce uno strumento ad hoc ai creditori per contrastare l’inerzia del debitore, propiziando una scelta in merito alla propria volontà di accettare o rinunziare all’eredità devolutagli, al fine di evitare la prescrizione, che è rappresentato dall’actio interrogatoria di cui all’art. 481 c.c.
In forza della citata norma il creditore può domandare all’autorità giudiziaria la fissazione di un termine entro il quale il chiamato debba adottare la decisione, pena la decadenza dal diritto di accettare l’eredità.
Per contro, secondo i più, la circostanza che il debitore lasci spirare altresì detto termine, in potenziale danno delle ragioni del ceto creditorio, troverebbe idonea tutela proprio nello strumento di impugnativa di cui all’art. 524 c.c., stante l’identità di ratio rispetto all’ipotesi tipica della rinunzia, che ne giustificherebbe, pertanto, l’estensione anche alla diversa fattispecie della decadenza dal diritto di accettare l’eredità.
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L’orientamento ormai consolidato in giurisprudenza, suffragato dalla decisione in commento, peraltro conformemente alla recente sentenza degli Ermellini, pronunciatisi in subiecta materia da ultimo con sentenza n. 5994 del 4 marzo 2020, afferma che i due soli presupposti applicativi dell’art. 524 c.c. sono l’esistenza (recte la pre-esistenza) del credito al momento della rinunzia e la sussistenza di un danno prevedibile alla platea dei creditori.
Muovendo le mosse dalla prima delle condizioni elencante, id est dall’esistenza del credito vantato, giova precisare che si registra un’uniformità di opinioni, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, circa la sufficienza della presenza di una valida fonte del credito, restando ininfluente rispetto alla legittimazione all’azione la circostanza che questo sia liquido o esigibile.
Dubbi sorgono in merito al legittimo esperimento dell’azione in parola da parte di titolari di crediti condizionati ed eventuali. Nonostante voci contrarie avanzate nel formante dottrinale, è da preferire la tesi più prudente che ne esclude l’ammissibilità, argomentando dal diverso tenore letterale dell’art. 524 c.c.rispetto al disposto dell’art. 2901 c.c., dettato in materia di azione revocatoria, che include expressis verbis tale tipologia di crediti nella portata applicativa del rimedio. Ciò consente di inferire che laddove il legislatore abbia voluto ricomprendere i crediti condizionali o eventuali nell’alveo di una data disciplina normativa li ha espressamente considerati, il che non è a dirsi con riguardo al testo normativo in commento.
Giungiamo ora alla trattazione del secondo - e ultimo - requisito invocato al fine di un legittimo esperimento dell’azione.
Questo consiste nella sussistenza - attuale o potenziale - di un prevedibile danno alle ragioni del ceto creditorio, quale conseguenza diretta o indiretta della rinunzia all’eredità.
La giurisprudenza ritiene sufficiente la mera prevedibilità del danno, ponendo il relativo onere della prova in capo al creditore istante.
L’attesa o la prospettiva di un danno alla pretesa satisfattoria del creditore basta a ritenere integrato il rimedio in esame; ci si domanda, dunque, quali siano gli elementi che debbano ricorrere affinché possa ritenersi sussistente un danno prevedibile.
Orbene:
Il momento rilevante per la valutazione di sussistenza del danno è quello in cui la rinunzia è eseguita, indifferenti restando, rispetto alla legittimità dell’azione, eventi successivi alla stessa.
Giova da ultimo precisare che non occorre neanche una preventiva escussione di tale personale patrimonio del debitore;
In punto di presupposti per l’azione, il novero è da intendersi esaurito; difatti la letteratura che si è occupata del tema fornisce una lettura restrittiva della norma, talché non si considerano elementi essenziali della fattispecie né la scientia damni[1] né la scientia o il consiulium fraudis.
Alla luce di ciò, è a dirsi che l’animus che colora e muove la volontà negoziale del rinunziante è indifferente rispetto all’accoglimento dello strumento in esame da parte dell’autorità giudiziaria.
La sentenza in commento chiarisce, poi, che è ammessa prova contraria circa la congruità della garanzia generica ai fini dell’adempimento coattivo dei debiti ovvero la irrilevanza del compendio ereditario rispetto alle pretese attoree, da fornirsi a carico del debitore o dei suoi eredi, in caso di sua premorienza.
Il passo citato offre lo spunto per dedurre, altresì, che legittimati passivi dell’azione sono financo i successori (inter vivos o mortis causa) del debitore - corollario essendone dunque la circolazione a causa di morte della posizione del debitore passibile di impugnativa ex art. 524 c.c. (deduzione che trova conforto nel pronunciato della Cassazione n. 17866 dell’anno 2003).
Invero, una ulteriore estensione della platea dei legittimati passivi dell’azione deriva dal disposto dell’art. 2652 n. 1 c.c, il quale sancisce l’esperibilità del rimedio contro i terzi aventi causa dall’erede in subordine accettante, allorquando la domanda giudiziale di cui all’art. 524 c.c. sia trascritta prima della trascrizione o iscrizione dell’acquisto del terzo.
Passando ora alla trattazione degli effetti del vittorioso esperimento del rimedio in commento, giova premetterne la qualificazione in termini di mezzo di conservazione della garanzia generica, attuato pel tramite di un’azione avente natura di impugnativa negoziale.
L’azione de qua, difatti, mira a colpire il negozio formale di rinunzia all’eredità, determinando
A parere della dottrina minoritaria, dovrebbe più propriamente discorrersi di annullamento della rinunzia.
Contra si è giustamente obiettato che una pronuncia di annullamento invaliderebbe ex nunc il negozio rinunziativo, mentre, a ben vedere, la conseguenza dell’azione in esame non consiste in una declaratoria di invalidità della rinunzia, la quale non presenta i vizi di cui agli artt. 1428 ss. c.c., bensì nel renderla inopponibile ai creditori istanti, consentendo loro di rivalersi sui beni relitti, con una peculiare estensione della responsabilità debitoria oltre i confini dell’art. 2740 c.c., come meglio in appresso precisato.
L’eventuale accettazione già intervenuta da parte dei chiamati ulteriori, impeditiva di una revoca della rinunzia (rectius di un’accettazione “tardiva”) ex art. 525 c.c., non è invece ostativa all’esercizio dell’azione di cui all’art. 524.
I due rimedi operano, infatti, su piani differenti: la norma di cui all’art. 524 c.c. ha, come sopra evidenziato, lo scopo di rendere inefficace la rinunzia esclusivamente avverso il creditore istante, fermi restando gli effetti della stessa in confronto dei terzi e ai fini di cui all’art. 525 c.c.. Indi, il vittorioso esperimento dell’azione non inficia l’accettazione medio tempore resa dal chiamato ulteriore.
Ma come si coniuga, dunque, la situazione acquisitiva dell’erede accettante con il diritto dei creditori a soddisfarsi sui beni relitti?
Ebbene, si legge in dottrina, l’erede acquista i beni assoggettati ad un peculiare vincolo in favore del creditore, dunque potenzialmente passibili di legittima aggressione da parte di quest’ultimo, al fine di realizzare le proprie pretese, a garanzia di un debito altrui.
Dietro il dispositivo in commento si cela dunque una previsione normativa di non poco momento, giacché l’art. 524 c.c. estende l’orbita applicativa della garanzia generica aldilà del perimetro dell’art. 2740 c.c., facoltizzando i creditori a ristorarsi su beni altri rispetto a quelli propri del debitore, con i quali, a norma del citato articolo, egli risponderebbe normalmente delle sue obbligazioni, id est sui beni acquistati iure successionis dai chiamati ulteriori ovvero sui beni “giacenti”, a seconda dei casi;
Al riguardo si badi che il legislatore non ha tecnicamente a mente l’accettazione dell’eredità propriamente intesa.
Invero, il riferimento all’“accettazione”, la quale è riservata ai soli chiamati, è da intendersi come autorizzazione “ad aggredire” la quota parte di beni ereditari che sarebbero spettati al debitore-chiamato-rinunziante, da attuarsi mercé gli ordinari strumenti esecutivi.
Tale interpretazione trova conferma nel semplice ma pugnace dato letterale della norma, la quale sancisce che l’accettazione è effettuata “in nome e in luogo” del debitore rinunciante, da ciò potendosi inferire che i creditori non acquistano personalmente la qualità di eredi.
Conseguentemente, l’azione di cui all’art. 524 c.c. si pone in chiave di strumentalità rispetto alla concreta attuazione dell’interesse creditorio alla prestazione: difatti, sarà pur sempre poi necessario ordire una regolare procedura esecutiva, mobiliare o immobiliare, al fine di conseguire quanto effettivamente spettante al creditore.
La ricostruzione della natura giuridica dell’azione de qua passa pel tramite del suo raffronto con due strumenti affatto similari, nel cui ambito di operatività essa è alternativamente sussunta in dottrina: il riferimento corre all’azione revocatoria e a quella surrogatoria.
Autorevole dottrina (Cicu, Schlesinger, Nicolò) riconduce l’azione di cui all’art. 524 c.c. nell’ambito di una peculiare applicazione normativa dell’azione revocatoria (c.d. azione pauliana), disciplinata dall’art. 2901 c.c..
Essa, infatti, produrrebbe l’analogo effetto di determinare l’inefficacia relativa dell’atto compiuto in spregio alle ragioni del ceto creditorio, con la conseguenza di ritenere l’attivo ereditario come facente parte del patrimonio del debitore rinunziante; vieppiù che entrambe le azioni sono soggette al medesimo termine prescrizionale quinquennale e v’è coincidenza in seno all’art. 2652 c.c. tra il n.1 e il n. 5 quanto alla loro opponibilità ai terzi aventi causa, di cui si è detto sopra.
Epperò - dato atto che l’azione revocatoria suppone il compimento di un atto latamente dispositivo del patrimonio da parte del debitore - questa tesi prende le mosse dal postulato che la stessa delazione abbia ex se un connotato di patrimonialità, di tal ché la sua rinunzia comporti un effettivo decremento delle sostanze del debitore.
Invero, in ciò è destituita di fondamento la tesi in commento, dal momento che, in ipotesi di rinunzia all’eredità, non si assiste ad alcun atto “dispositivo” del patrimonio del debitore: la stessa ha difatti natura di rifiuto impeditivo di un acquisto e non eliminativo di un diritto quesito. Dunque, deve criticarsi l’assunto di cui sopra che fonda la sussunzione del rimedio in esame sotto l’egida della revocatoria: la delazione, infatti, non ha carattere patrimoniale e non costituisce un bene facente parte del patrimonio del chiamato, talché la rinunzia non si categorizza quale atto dispositivo.
Inoltre, è possibile individuare ulteriori punti di discrimen tra i rimedi in comparazione: differenti sono i presupposti (come si è detto l’art. 524 c.c. a differenza dell’art. 2901 c.c. non richiede la consapevolezza del danno o la preordinazione della lesione) e differente è il bacino di creditori legittimati all’azione (si è già avuto modo di analizzare, infatti, la mancata inclusione nel rimedio in commento dei crediti condizionali o a termine).
Altra autorevole dottrina (Bianca) riconosce invece all’art. 524 c.c. un effetto similare al rimedio della c.d. surrogatoria, giacché il creditore pone in essere un atto al cui compimento sarebbe legittimato il debitore, agendo in suo nome e conto.
Criticabile, altresì, tale ricostruzione dogmatica, la quale non tiene conto delle seguenti differenze di regime.
In primis, l’azione surrogatoria si esperisce allorquando il debitore sia inerte o trascuri di agire per far valere o difendere un proprio diritto, provocando un implicito danno ai creditori, mentre l’azione di cui all’art. 524 c.c. opera in ipotesi in cui il debitore agisca ma con condotta di segno opposto all’interesse creditorio in virtù di una precisa scelta.
In secundis, al vittorioso esperimento dell’azione in commento - al contrario che nel caso dell’azione surrogatoria - non corrisponde un accrescimento patrimoniale per il debitore, in quanto non si assiste ad un autentico fenomeno di c.d. “sostituzione” sostanziale o processuale. I creditori, difatti, non esercitano un diritto astrattamente spettante al debitore - come detto, essi non accettano l’eredità - bensì esercitano un diritto proprio: il diritto di soddisfarsi sui beni relitti, i quali restano di piena titolarità degli eredi, senza mai entrare a comporre il patrimonio del debitore.
A conferma di quanto detto, milita altresì la circostanza su cui si fonda il rimedio stesso, ossia l’atto dismissivo del diritto di accettare da parte del debitore, che non può che condurre a ritenere che non vi sia alcun diritto nel cui esercizio i creditori possano sostituirsi al debitore. L’art. 524 c.c. dunque non richiede la spettanza attuale in capo al debitore del diritto oggetto di azione.
In conclusione, è preferibile non inoculare l’azione di cui all’art. 524 c.c. in altri istituti, bensì qualificarla alla stregua di un rimedio sui generis, autonomo e la cui portata eccezionale risiede nella sua estensione della responsabilità debitoria oltre i confini del patrimonio personale del debitore, come delineati dall’art. 2740 c.c.
Un ultimo cenno al tema, dibattuto, della applicabilità analogica di tale congegno normativo al caso della rinunzia all’azione di riduzione da parte del legittimario pretermesso, che meriterebbe un’autonoma trattazione, qui limitandoci a riportare, ritenendolo utile, l’orientamento, allo stato attuale granitico, della Suprema Corte (con sentenze n. 20562 del 2008 e n. 3389 del 2016), che non legittima il creditore ad agire in quanto il legittimario in questione non rivestirebbe il ruolo prescritto dall’art. 524 c.c. di chiamato all’eredità, giusta la sua pretermissione.
Si segnala una recente voce contraria manifestata con sentenza n. 118 del 2018 dalla Corte d’Appello di Napoli, che potrebbe condurre ad una graduale inversione di tendenza sul tema.
[1] nonostante voci minoritarie la ritengano in ogni caso implicitamente sussistente in termini di inadempimento al generale dovere del debitore di conservazione della garanzia dei suoi debiti