E’ facoltà dei singoli Comuni prevedere nel regolamento comunale che gli edifici adibiti a culto religioso siano esenti da Tari e Tarsu purché la norma venga applicata in armonia con il principio comunitario “chi inquina paga” e con le disposizioni degli artt. 62 e 70 del D.lgs. n. 507/ 1993 (Cassazione, sent. n. 16641, 23 maggio 2022).
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Nel caso di specie, l’Associazione religiosa – priva di intesa con lo Stato italiano - impugnava cartella di pagamento relativa alla Tarsu dell’anno 2008, deducendo che i locali oggetto di tassazione risultano adibiti al culto e, di conseguenza, beneficiano della esenzione prevista dal Regolamento comunale in materia di Tarsu.
Il ricorso veniva tuttavia respinto in primo grado e l’Associazione contribuente proponeva dunque appello, a sua volta respinto dalla competente CTR sul rilievo che l’Associazione religiosa non aveva ancora stipulato con lo Stato italiano una intesa ai sensi del comma 3 dell’art.8 della Costituzione: pertanto, sarebbe mancante del riconoscimento del carattere di confessione religiosa.
La contribuente proponeva infine ricorso per Cassazione.
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I giudici di legittimità affrontano in primis la questione connessa all’effettivo riconoscimento del carattere di confessione religiosa.
Nel caso in esame, l’esenzione dall’imposta veniva negata proprio interpretando (erroneamente) il Regolamento del Comune nella parte in cui prevede l’esenzione dalla Tarsu per gli edifici adibiti al culto.
La norma tuttavia non può essere letta nel senso che si applica solo alle comunità religiose che hanno stipulato un’intesa ai sensi dell’art. 8 comma 3 della Costituzione in quanto non conforme nè alla lettera della norma, né alla sua finalità.
Difatti la confessione religiosa non ha necessità di un riconoscimento per qualificarsi tale, né di stipulare una intesa con lo Stato; inoltre va considerato il rango di norma secondaria del regolamento comunale, che deve interpretarsi in armonia con la norma primaria, i suoi scopi e le sue finalità, nonché con la normativa sovranazionale e la Costituzione italiana.
In altri termini – proseguono i Giudici - allo stato della vigente legislazione nazionale, il riconoscimento della confessione religiosa è cosa diversa dalla stipulazione dell’intesa e né l’uno né l’altra hanno alcuna rilevanza ai fini del libero esercizio del culto, in forma individuale o associata, diritto protetto dagli artt. 8 e 19 della Costituzione.
Il riconoscimento e l’intesa, infatti, operano su piani diversi da quello dell’esercizio della libertà di culto
La norma primaria a sua volta deve essere interpretata in armonia con il principio eurounitario “chi inquina paga” espresso nell’art. 15 della direttiva 2006/12/CE e nell’art. 14 della direttiva 2008/98/CE, cui si ispira l’art. 62 del D.lgs. 507/1993, sicché non potrebbe trovare spazio una norma regolamentare che esenti dal pagamento della Tarsu locali che sono invece idonei alla produzione dei rifiuti.
La finalità della norma regolamentare in esame non è quella distinguere i culti e le confessioni religiose a seconda se abbiano stipulato o meno intese con lo Stato, quanto piuttosto quella di individuare con un certo margine di precisione quali sono i locali che, in ragione della loro destinazione d’uso, si esonerano dal tributo.
Ciò in quanto la norma presuppone, a monte, la valutazione sulla non idoneità a produrre rifiuti dei locali destinati all’esercizio del culto.
Per potersi parlare di locali destinati ad esercizio del culto è necessario:
Il che comporta
Sulla scorta di principi sopra precisati, si può osservare che una interpretazione armonica e coerente con la normativa primaria, le Direttive UE e la Costituzione, impone di considerare per locali adibiti all’esercizio del culto quei locali che nei quali in concreto si esercita una pratica che può definirsi culto, nell’ambito di una confessione religiosa in cui fini non contrastano con i principi fondamentali dell’ordinamento nazionale.
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La Cassazione ribadisce il principio per cui occorre accertare in concreto che nei locali per i quali è richiesta l’esenzione la comunità si riunisca per esercitare il culto e non ad altri fini.
Detta verifica deve eseguirsi in concreto e non in astratto e pertanto non è sufficiente la classificazione catastale dei locali come edifici destinati al culto.
E’ allora necessario
Si aggiunga la precisazione che la mancanza del primo di questi requisiti (cioè la denuncia o la variazione) non è emendabile in giudizio, mentre in caso di contestazione lo è il secondo requisito (cioè la prova della effettiva destinazione dei locali).
Il contribuente deve dedurre e provare i relativi presupposti (Cass. n. 18054/2016), poiché sull’interessato grava, in uno con l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 70 del D.lgs. n. 507/1993, un onere d’informazione, al fine di ottenere l’esclusione delle aree indicate dalla superficie tassabile (Cass. 2125/2017; Cass. 21011/2021). Se la parte non assolve a detto onere di preventiva informazione, la relativa circostanza non può essere fatta valere nel giudizio di impugnazione dell’atto impositivo (Cass. 14037/2019; Cass. 31460/2019).
La denuncia (o variazione) assolve infatti alla finalità di portare a conoscenza dell’ente impositore quali sono i locali occupati o detenuti e quelli per i quali sussistono - secondo il contribuente - i requisiti della esenzione, così da consentire all’ente
Al tempo stesso la stessa denuncia/variazione integra la dichiarazione della volontà di avvalersi del beneficio per i locali indicati come superficie non tassabile.
Per queste ragioni, la sua carenza non è emendabile se non per il futuro, e cioè con riferimento agli anni di imposta non ancora scaduti, tramite la presentazione, nei termini previsti dall’art 70 del D.lgs. 507/1993, della denuncia o della variazione.
Solo se il contribuente ha presentato la denuncia o la variazione, potrà integrare, in caso di contestazione, in via stragiudiziale ovvero anche in giudizio, la prova della effettiva destinazione dei locali.
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In conclusione i Giudici di legittimità stabiliscono che:
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