Quando si parla di «sostituzione d’imposta» bisogna necessariamente introdurre il concetto di riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., il quale così recita «Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge». L’articolo, dunque, considera le prestazioni «personali» e «patrimoniali» imposte e ne delinea i rapporti con gli obblighi (o le obbligazioni) di natura tributaria.
Da un’attenta lettura del citato articolo è possibile rinvenire che si tratti di una riserva relativa di legge.
Senza entrare nel merito della definizione di detta fattispecie, possiamo però chiarire che la Corte costituzionale ritiene che debbano essere necessariamente individuati con legge:
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Entrando nel merito dei soggetti passivi, bisogna chiarire che tale disciplina debba essere intesa in senso ampio, ovvero che debba comprendere non solo i soggetti titolari dell’indice di capacità contributiva[1], ma anche di quei soggetti che formano oggetto di un obbligo di natura patrimoniale seppure non hanno realizzato il presupposto.
Dunque, è chiaro, che si fa riferimento alla figura del sostituto d’imposta oppure del responsabile d’imposta.
Il legislatore quindi, in tema di capacità contributiva[2], amplia la sfera dei soggetti passivi e prevede la possibilità di imporre il prelievo anche a soggetti diversi da coloro cui è riferibile l’indice di forza economica, onde evitare situazioni di incostituzionalità in pieno contrasto con l’art. 53 Cost.
Il legislatore prevede anche che questi ultimi devono avere la sicura possibilità di far ricadere[3] l’onere economico sul soggetto che realizza il fatto che manifesta la capacità contributiva, mediante l’applicazione dello strumento della rivalsa.
Anche in questo caso, come per la disciplina IVA, bisogna operare una distinzione tra la figura del contribuente di diritto (colui che è giuridicamente tenuto a corrispondere il tributo) e del contribuente di fatto (colui che è destinato a «sopportare» l’onere economico del prelievo).
[1] Dunque quelli definibili «in senso stretto».
[2] Art. 53 Cost., Comma 1.
[3] Mediante, ad esempio, l’obbligo di rivalsa che si attua tipicamente attraverso la «ritenuta alla fonte».
A una prima lettura, il termine sostituzione può indurre in errore[1], ovvero potrebbe portare a credere che vi sia una doppia movenza legislativa. Cioè, dapprima l’istituzione dell’imposta a carico di colui che realizza il presupposto e, in un secondo momento la sostituzione di tale soggetto.
In realtà si può affermare che non esiste un fenomeno giuridico di vera sostituzione, poiché vi è sin dall’origine (del «fatto») l’imposizione di un obbligo a carico del sostituto, il quale diverge da ciò che si intende per ordinario soggetto passivo d’imposta, in quanto non realizza il presupposto. Nella realtà dei fatti, quindi, il sostituto non è un obbligato che «sostituisce» un altro soggetto obbligato prima di lui.
Il sostituto opera invece il meccanismo della c.d. traslazione mediante l’applicazione della rivalsa, ovvero operando una ritenuta alla fonte sull’importo lordo.
In tale ambito, ovvero all’interno del rapporto interno tra condebitori d’imposta non si è più in una fattispecie di rapporto tributario, bensì ci troviamo di fronte ad una fattispecie di diritto privato.[2]
L’obbligazione privatistica del sostituto verso il sostituito è adempiuta, ed infine estinta, con la corresponsione di una somma minore di quella dovuta (come si diceva pocanzi e come meglio si approfondirà in seguito); ciò in forza della norma sulla ritenuta che ha per oggetto il regime del rapporto civilistico.
[1] F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario – Parte generale, UTET Giuridica, Wolters Kluwer Italia s.r.l., Milano, 2021.
[2] D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 35.
La sostituzione tributaria appena descritta si può presentare in due forme:
Nel caso della ritenuta d’acconto[2], questa rappresenta solo una mera anticipazione del tributo dovuto su quanto percepito e, di conseguenza, non esaurisce il rapporto tributario tra contribuente e soggetto attivo. Difatti, quest’ultimo, è tenuto ad indicare i relativi redditi nella propria dichiarazione fiscale, calcolando quindi l’imposta globalmente dovuta e scomputando da quest’ultima, poi, l’ammontare delle ritenute subìte (sostituzione parziale d’imposta).
Nella fattispecie della ritenuta d’imposta[3], invece, si estingue l’obbligazione del sostituito in relazione al reddito cui si riferisce. Dunque, tale reddito non concorre alla formazione del reddito complessivo del sostituito e, di conseguenza, non deve essere dichiarato (sostituzione integrale).
[1] La quale costituisce una deroga rispetto alla tassazione globale e progressiva delle persone fisiche e, proprio per tale motivo, il legislatore ne prevede l’applicazione in un numero più limitato di casi (a differenza della sostituzione a titolo d’acconto che realizza soltanto una forma di riscossione anticipata e non pone deroghe alla progressività, motivo per cui ha una sfera di applicazione assai ampia).
[2] Nella categoria delle ritenute d’acconto rientrano, a titolo esemplificativo, quelle cui sono tenuti i datori di lavoro sui compensi o comunque sulle altre somme che costituiscono reddito di lavoro dipendente, o ancora, quelle cui sono tenuti determinati soggetti sui corrispettivi per prestazioni di lavoro autonomo.
[3] In tale categoria rientrano invece, a titolo esemplificativo, le ritenute sui dividendi ed altri redditi di capitale corrisposti a soggetti non residenti.
Il meccanismo appena descritto ha sollevato numerose perplessità circa la costituzionalità e la legittimità della fattispecie e, considerando quanto sinora riportato, possiamo effettuare le considerazioni che seguono.
Le questioni inerenti i seri dubbi di legittimità costituzionale fanno riferimento a quanto sancito dall’art. 53 Cost. Il citato articolo, al Comma 1, recita come segue “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, dunque sembrerebbe entrare in contrasto con il meccanismo della sostituzione d’imposta che prevede l’adempimento di una prestazione di natura patrimoniale posta in capo ad un soggetto, senza che si tenga conto della correlata capacità contributiva.
Dunque sembrerebbe ritenersi che il sostituto debba essere considerato quale semplice incaricato ope legis dell’adempimento parziale o totale della prestazione impositiva che grava sul sostituito per conto di quest’ultimo.
In risposta a ciò però si può affermare che il meccanismo della sostituzione d’imposta persegue un forte interesse fiscale, andando a tutelare e rendere sicuramente più celere l’attuazione del tributo oggetto di fattispecie.
Ed inoltre, sostegno a favore è dato anche dall’art. 8, comma 2, dello Statuto dei diritti del Contribuente, il quale stabilisce che è ammesso l’accollo del debito altrui salva la sua natura meramente interna e, di conseguenza, l’inopponibilità di siffatto negozio all’Amministrazione finanziaria creditrice, che pertanto è legittimata ad avanzare la sua pretesa nei confronti del debitore originario non essendo costui liberato a seguito dell’accollo.
Ancora, si può affermare che tale meccanismo, basandosi su un principio di contrasto di interessi tra la figura del sostituto e del sostituito, contribuisce a ridurre sensibilmente il rischio di evasione.
Infine, la previsione legislativa della sostituzione tributaria risulta costituzionalmente legittima nei limiti in cui il meccanismo giuridico consenta di evitare il rischio che il peso economico gravi, in via definitiva, sul sostituto. Ciò si concretizza proprio attraverso lo strumento della rivalsa attuata mediante il meccanismo della ritenuta sinora descritto.